Parte seconda ed ultima – Deo gratias. Reiniziamo a palla.
Significativo è l’episodio in cui Paride, affidata la mela d’oro ad Afrodite, preferendo le seduzioni della carne a quelle del potere (Era) e della saggezza (Atena), pensa: < “Se sono figlio di re, perché resto qui a fare il pastore? Se posso avere la donna più bella del mondo, perché mi contento di Enone? Enone è carina e mi vuole bene, ma chissà com’è bella Elena! Sarà certo simile ad una dea!” > (p.34). Il discorso, a mio avviso, esemplifica la condanna al progresso dell’ uomo, che vede la realizzazione nel miglioramento, più che nella fruizione della situazione che vive: la condanna è all’infelicità. Non solo nel momento del mancato miglioramento della propria condizione, ma anche nel successo – e sta proprio qui la disperazione – poiché il cuore dell’uomo mai può essere pago e sempre brama. È quindi qualcosa di necessariamente negativo? Forse il problema è di focalizzazione su cosa desiderare, nel tentativo, forse utopistico, di amare qualcosa che si rinnovi sempre in se stessa, di autoreferenziale, per rendere positivo il circolo di brame: intendo l’Amore stesso (che sia proprio l’Amore eterno dell’eterno attimo ciò che chiamiamo Paradiso?). O forse semplicemente Paride era una persona superficiale.
La maniera in cui Menelao si propone di amare Elena e la conclusione felice della vicenda col matrimonio dei due hanno segnato profondamente la mia adolescenza. La prima, per la concezione che avevo di disinteresse per virtù e per amore, la seconda per semplice commozione e desiderio di vita.
Amare per amore un indifferente: < Ma Menelao non parlava mai alla principessa e non le diceva mai che le voleva bene. Sapeva che tutti i giovani dell’Ellade avrebbero voluto sposare la bellissima giovinetta; che gli eroi più forti, più ricchi, i principi più belli sarebbero stati felici di averla. E non diceva niente, ma cercava di diventare più buono e più forte per essere degno di lei > (p. 69). Che vuol dire? Utilizziamo un esempio opposto, ossia amare per l’indifferente l’indifferente stesso: < E i pretendenti non erano amici fra loro, ma si odiavano, e ciascuno gridava che avrebbe ammazzato gli altri, se non fosse riuscito ad ottenere in sposa la bellissima principessa > (p. 71). Se nel primo caso il fine è sinolo di indifferente ed universale (l’ Amore stesso) e quindi massima espressione dell’amore nel mondo, nel secondo caso, l’indifferente non è solo fine ma anche causa, pretende qualcosa in cambio per aver ragion d’ essere e non può che dimostrarsi violento a chiunque possa desiderare la stessa cosa, o intralciare il suo percorso. Forse sarebbe più opportuno dire che nel primo caso si ama, mentre nel secondo solo si brama.
Perché Menelao ha fatto tutto questo? Per essere degno di Elena. Cosa vuol dire essere degno? < “… essere degni di una cosa vuol dire saperla meritare “ > (p. 70). *Elena, in questo senso, è tramite per un concetto assai più ampio: Menelao non vuole semplicemente essere degno di lei, ma vuole meritarsi di essere felice (che poi questa felicità sia riposta in Elena è indifferente), per questo arde ed è consumato. Non tanto ciò che la vita può regalare, quanto ciò che si può regalare alla vita: un corpo, una mente, un’ anima più virtuosa di quanto ci è stato concesso.
La conclusione dell’ episodio mostra cosa succede nel momento in cui si ascolta il silenzio dell’ amore: < “ Padre mio, scelgo il giovane Menelao. Così disse Elena, e tutti guardarono sorpresi Menelao, che rimaneva muto e immobile nel suo cantuccio, non potendo quasi credere alla sua gioia, con gli occhi scintillanti. Non era il più ricco né il più forte né il più bello, ma aveva cercato di divenire degno di Elena e per questo Elena gli voleva bene > (p. 75-6). Il regalo dell’ amore è indifferente (positivo) all’amore stesso, segna solamente la gioia o meno di chi ama. Beata gioventù.
Sviluppi dell’infatuazione. Non è importante ciò che si pensa o prova, non è questo che ci qualifica al mondo, ma ciò che si decide di esternare, di regalare, le nostre azioni. < (…) Paride pensava cose cattive. “Che cosa pensava di cattivo? “ domandarono Leo e Lia. “ Pensava: ‘La regina di Sparta è la donna più bella che io abbia mai visto: e mai più nel mondo potrò vedere una bellezza simile ‘ “. “Questa non è una cosa cattiva “ osservò Lia. “ No, questa non è una cosa cattiva. Ma Paride pensava anche: ‘Afrodite ha promesso di darmi Elena, e io la voglio. Perché Elena è moglie di Menelao e non mia? Io la porterò a Troia con me’ > (p. 84). Paride non pecca nel pensare ad Elena, ma nel dolo dell’attuazione di questi pensieri: la bontà non sta solo nell’assecondare le proprie buone inclinazioni, ma anche, e soprattutto, nell’ignorare le cattive. Lo stesso è possibile dire di Elena: < Nessuno poteva essere più bello e gentile di Paride, ma ella non aveva il diritto di lasciare Menelao e la patria e la figlia cara! > (p. 86). Anche Elena non rinuncia alle proprie inclinazioni, è abbagliata dalla passione e dal sentimento, che non sono più mezzo per il bene, ma fine con valore intrinseco: è proprio invertire i mezzi con i fini ciò che maggiormente inquina la disposizione d’animo.
La conclusione di questa storia è, a mio avviso, agghiacciante: sia Menelao nel trascurare Elena, sia Paride nel sedurla, sono in buona fede. < Paride aveva cantato le sue più dolci canzoni, accompagnandosi con la lira, e ora parlava alla bella regina, e diceva che l’ avrebbe amata tanto da renderla felice come non era stata mai. “ Erano tutte bugie” esclamò Leo che non aveva per niente in stima Paride. “ No, no, non eran bugie. Paride pensava veramente tutto quello che diceva “. “ Anche Menelao le aveva dette quelle cose, però! “. “ Sì, le aveva dette. Ma altro è dire e altro è fare. Pochi sanno voler bene, e né Paride né Menelao sapevano ” > (p. 88). Non solo con dolo, ma anche col pieno assenso della propria buona volontà è possibile non riuscire ad amare. Questo è uno degli aspetti della nostra limitatezza che più possono forzare alla disperazione.
Il momento in cui Elena si rende conto del tradimento nei confronti di se stessa e dei suoi cari, quando cioè riesce di nuovo a vivere anche vedendosi vivere, è terribile: < Ma non poté muoversi. La vergogna di ciò che aveva fatto la tenne ferma e immobile. Non le parve più di essere degna di tornare dalla sua bambina. Si sentì vile, e rimase piangendo: e molti e molti giorni la bellissima donna pianse e si disprezzò e si odiò > (p. 103). Acquisire consapevolezza, salire di un gradino di realtà, spinge alla rottura con se stessi, e ciò passa inevitabilmente dal disprezzo di sé e delle proprie azioni (momento negativo), un meccanismo di autolesionismo che, però, può portare ad un momento positivo, ossia ad amarsi nonostante se stessi, che reca non già il perdono per il passato, ma la speranza vivida di fungere da mezzo per il bene, grazie al dolore della propria esperienza. Pathei mathos, già che ho letto di recente l’articoletto della mia collega Maria Sole.
Arnaldo Mitola
Un ringraziamento al mio libraio Angelo
*si tiene ben presente e se ne rifugge qui dalla pericolosità di un pensiero che sostenga che ci si meriti l’amore: è contraria all’idea di gratuità di fondo che permea questo sentimento. Qui il ragionamento verte su altri binari.
Bibliografia
NOZICK R., La vita pensata, BUR, Milano, 2004
ORVIETO L., Storie della Storia del Mondo, Giunti Junior, Milano, 2012.
https://universitarianweb.com/2014/10/09/storie-della-storia-del-mondo-una-recensione-etica-i/