Ognuno di noi, nel corso della vita, si identifica in diversi aspetti del mondo circostante: dallo studio di un qualche argomento, conosciuto o non, alla pittura, alla scultura, alla politica, alle scienze, alla musica. In ciascuna di queste cose ognuno di noi trova una parte di sé, e allo stesso tempo le interiorizza e le trasforma in qualcosa di ancora più definito. Nell’identità ebraica si può trovare una parte importante nel legame con la musica: sin da bambino l’ebreo sente in sinagoga melodie ‘diverse’ da quelle comuni, differenti tra loro perché provenienti da storie e tradizioni che spesso hanno poco a che fare l’una con l’altra; sono melodie che rimangono impresse nella mente per tutta la vita, che gli danno una profonda consapevolezza del diverso, lontane dal mondo in cui vive, vicine, tramite la musica, a luoghi distanti, per molti solo immaginabili. Nell’articolo di Leo Levi Le liturgie tradizionali dell’oriente come espressione di coscienza e continuità culturali, sul quale mi baserò, l’autore descrive le musiche orientali, nella loro profonda diversità da quelle del mondo occidentale, ma non così lontane da quelle tipiche ebraiche.
Partiamo dalle diverse interpretazioni del termine ‘liturgico’: nel mondo cristiano esso mantiene il significato greco λειτουργία, cioè ‘servizio’ (nell’antica Grecia di carattere religioso, pubblico o militare) – un officiante che recita la funzione religiosa e un coro che canta musiche scritte. In Oriente è invece, spiega Leo Levi, “l’espressione musicale e corale della religiosità popolare”, non solo nel mondo ebraico o arabo, ma anche cristiano-orientale o in generale asiatico-orientale. È quindi un canto collettivo, basato sulla lettura di testi antichi.
Potremmo perciò dire che in Occidente la musica liturgica è concepita come una ipostasi, come un qualcosa di fermo e definito. Questo è dovuto anche all’invenzione della scrittura della musica: scrivere, mettere per iscritto una tradizione orale, determinando altezze, durate, trasformandola in qualcosa con una propria forma solida, ha tolto parte della ‘vitalità’ della musica liturgica occidentale, una volta orale, popolare.
Dal punto di vista etimologico si possono trovare delle differenze nel significato originale per indicare i libri del Vecchio Testamento. ‘Bibbia’, sempre dal greco τὰ βιβλιά, vuol dire ‘i libri scritti’, mentre in ebraico vengono chiamati מיקרא (mikrà), ossia ‘lettura’ (come anche Kur’an, Corano, anch’esso dal significato di ‘lettura’). Nel Talmud troviamo scritto “Chi legge la Torà, o Mikrà, senza cantarla è come se sacrificasse agli idoli”. La musica, il canto, la tradizione, la trasmissione di cultura da uomo a uomo tramite il canto, ‘santifica’ la lettura del testo, ma la rende dissacrante se recitata in modo assente.
Ed è qui la distanza tra queste due concezioni di musica: da una parte una musica recitata in modo fisso, che ‘incanta’, una musica scritta con modalità precise e ben definite; dall’altra una musica trasmessa oralmente, figlia di una tradizione orale tramandata da secoli, diversa da com’era in principio e variabile col tempo.
Anche in Oriente verrà poi usata la scrittura, stilizzata in complicati formulari, per esprimere il legame tra parola e canto, che si basa sull’esecuzione di musica da parte di tutti piuttosto che sull’ascolto passivo. È fatta utilizzando criteri ritmici e melodici obbligatori, indicati con segni di vario tipo, ma mutabili e perciò non fissi. La lettura attiva porta a un’identificazione che spesso può risultare non solo religiosa ma anche nazionale: è letta nella lingua nazionale, in modo che tutti possano comprendere e che tutta la nazione, non solo le classi colte, possa riconoscersi in ciò che viene detto. Ad esempio, il Vangelo il giorno di Pasqua nelle liturgie ortodosse viene letto in dodici lingue diverse, applicando lo stesso modulo melodico in tutte le letture. Ci si collega, quindi, a un concetto di “linguaggio musicale interetnico”: varcare i confini nazionali, etnici, culturali, per poi unirli tramite l’espressione musicale – perciò da un lato la lettura religiosa cantata può rafforzare l’identità nazionale, dall’altro rafforza anche la concezione di internazionalismo.
In Oriente la lettura di testi ‘sacri’ diventa dunque un momento spirituale, popolare-nazionale e contemporaneamente internazionalista.
Un altro effetto del sistema della lettura religiosa cantata è lo sviluppo della memorizzazione. A causa delle proibizioni di mettere per iscritto alcuni testi e preghiere si cerca di evitare di scrivere le musiche, e così, con questo sforzo, si sviluppa la memoria musicale. Le musiche memorizzate, come accennato prima, si imparano nella propria infanzia e rimangono impresse per tutta una vita, determinando molto la propria identità culturale-nazionale. Il momento di canto dei testi memorizzati porta il popolo, che canta insieme o rispondendo al cantore, ad identificarsi con le parole pronunciate, facendosi trasportare in un momento diverso nel tempo, quando queste parole erano state pronunciate da un qualche profeta o dalla divinità – è dunque un modo anche di collegamento con Dio, che mostra la sua presenza usando come mezzo il popolo stesso con il canto, con la musica.
Da questa lettura religiosa cantata vi sono anche conseguenze nella struttura del canto: viene infatti utilizzato il metodo della ‘composizione’ – si crea una specie di mosaico composto da vari pezzettini (ovviamente ‘musicali’), invece di note singole. A ogni parola o gruppo di parole (collegate nel testo biblico o sacro nella cadenza o nella sintassi) corrisponde una formula melodica, dalle tre alle cinque note, ma varia a seconda della struttura grammaticale, ritmica o sintattica del testo. Ripetendo sempre la stessa formula melodica si crea questo processo di memorizzazione: colui che canta memorizza col tempo un certo numero di melodie di questo tipo, e così il canto completo diventa un mosaico di queste formule melodiche.
Questo tipo di cantillazione dei testi sacri è giunto poi in Occidente, e da esso sono derivate varie forme, perdendo, però, le loro peculiarità orientali, che si applicano, oltre che negli aspetti musicali, anche in quelli comportamentali.
Tra nazionalismo ed internazionalismo, memorizzazione e mosaici, possiamo così avere un assaggio delle musiche tradizionali liturgiche in Oriente: sicuramente diverse sotto certi aspetti da quelle occidentali, simili sotto altri; sicuramente lontane ma non eccessivamente; sicuramente particolari, con un proprio carattere ed una propria sensibilità – ed è bello poter utilizzare queste parole parlando di musica, quella musica che ci accompagna come sottofondo nella scoperta di ogni popolazione e cultura diversa, mutando con la storia, i luoghi e le tradizioni.
Tamar Levi
Bibliografia
LEVI L., Le liturgie tradizionali dell’oriente come espressione di coscienza e continuità culturali in Canti tradizionali e tradizioni liturgiche – Ricerche e studi sulle tradizioni musicali ebraiche e sui loro rapporti con il canto cristiano 1954-1971 a cura di Roberto Leydi, Libreria Musicale Italiana, 2002
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