Supponiamo di star camminando per la strada e di incontrare un passante che si toglie il cappello davanti a noi: capiamo subito che con questo gesto ci sta salutando. La prima cosa che pensiamo è che questo signore sia qualcuno beneducato e di buon umore che ci dimostra cordialità. Abbiamo dato così alla situazione un significato “primario”, o “descrittivo”. Possiamo però chiederci, a questo punto: come mai il fatto di alzare il cappello mi fa comprendere che il signore mi sta salutando e dimostrando cordialità? Possiamo cioè chiederci perché vi sia questa abitudine, e ricercare un significato più profondo, un significato “secondario”, o “convenzionale”. Per rispondere alla domanda non basta l’esperienza personale, ma occorre un ragionamento storico. Il gesto di levare il cappello infatti viene dal Medioevo: quando due cavalieri si incontravano, se erano amici o avevano intenzioni amichevoli, alzavano la visiera del loro elmo in segno di pace; se invece uno dei due abbassava la visiera, cominciava lo scontro. Potremmo però chiederci ancora qualcosa, relativamente al signore che alza il cappello: chi è quest’uomo? Perché ci saluta? Questo è il livello più profondo di comprensione, per cui non basta la conoscenza storica, ma occorre una conoscenza della personalità dell’individuo. Il signore ci può salutare, per esempio, perché è un nostro amico, o una persona conosciuta a un ricevimento.
In questo esempio, tratto dal libro Meanings of the visual arts (1955) di Erwin Panofsky, sono ben evidenziati i tre livelli cognitivi attraverso i quali studiare le opere di arte figurativa. Vi è un primo livello pre-iconografico: una semplice descrizione dei motivi artistici – cioè di quello che vediamo nell’opera – che si basa sull’esperienza quotidiana con certi oggetti ed eventi. Il livello successivo è quello iconografico, che necessita della conoscenza delle fonti letterarie, che permettono di distinguere i personaggi presenti nell’opera, grazie agli elementi raccolti nel primo livello; sempre nel livello iconografico poi, a seconda dello schema, cioè della posizione dei personaggi, si riconoscono i particolari eventi raccontati. Infine abbiamo un terzo livello, quello iconologico. Il livello iconologico è il più complesso perché vi si ricerca il messaggio più profondo dell’immagine, cioè il suo significato simbolico, che non viene sempre comunicato con chiarezza dall’artista. Entra in campo, quindi, un aspetto soggettivo, che si fonda sulla conoscenza della tradizione simbolica dell’immagine e sulla sensibilità dell’esegeta.
Facciamo un esempio di tale modalità di lettura a tre livelli con il Ritratto di Commodo in figura di Eracle (190 d.C. circa), di autore ignoto, conservato ai Musei Capitolini a Roma. Al primo livello ci limitiamo alla descrizione di quanto si vede: un busto che rappresenta un uomo barbuto, con sulle spalle un mantello di pelle di leone che gli copre anche la testa (con un cappuccio realizzato con la testa del leone); nella mano destra tiene una clava che gli poggia sulla spalla destra, mentre nella mano sinistra tiene dei pomi. Adesso possiamo passare al livello iconografico: si riconosce l’imperatore Commodo dai tratti somatici – occhi sporgenti e socchiusi, naso affilato, bocca tumida, capigliatura e barba trattati come una massa unica – confrontabili con quelli delle monete che rappresentano l’imperatore e datano del 190 d.C.; si riconosce però soprattutto Eracle dai vari elementi che appartengono a questo eroe, come la clava, la pelle del Leone di Nemea usata come mantello, e i pomi d’oro delle Esperidi.
È un retore vissuto tra il II e il III secolo d.C. di nome Filostrato Maggiore, a definire per la prima volta la categoria di elementi che ci permettono senza ombra di dubbio di riconoscere un particolare eroe o dio del repertorio mitologico. Filostrato è l’autore di una bellissima opera, fondamentale per la storia e gli studi dell’iconografia, dal titolo Εἰκόνες (Immagini), in cui immagina di condurre una classe di allievi in una pinacoteca a Napoli, e di descrivere ai fanciulli i vari quadri. Nell’opera Filostrato utilizza due parole chiave: γνωρίσματα (attributi/segni di riconoscimento) e σύμβολα (simboli). Gli elementi che caratterizzano un particolare eroe sono i γνωρίσματα: nessun altro eroe, a parte Eracle, veste una pelle di leone, portando una clava e dei pomi; come, per fare un altro esempio, nessun dio, a parte Zeus, scaglia fulmini. I personaggi della mitologia sono dei “tipi” differenziati da caratteristiche fissate, ben presenti all’artista iconografo, che le utilizza per permettere la comprensione dell’opera al fruitore.
L’altra parola chiave è σύμβολον. Il σύμβολον, al contrario dello γνωρίσμα, non è attributivo, ma sostitutivo e prolettico: lo γνωρίσμα è un elemento della figura del personaggio, mentre il σύμβολον è una figura a sé stante, che sostituisce o annuncia (in questo senso, prolettico) il personaggio. Prendiamo come esempio la pantera: dalle fonti sappiamo che gli antichi ritenevano che la pantera fosse attratta dall’odore del vino e odorasse di vino, e quindi tale animale era strettamente collegato a Dioniso; inoltre i movimenti ferini della pantera erano collegati con quelli delle baccanti in estasi. La pantera dunque, raffigurata anche senza Dioniso, si porta dietro l’idea del dio del vino, e, se in una scena mitologica troviamo una pantera, è come se ci fosse anche Dioniso.
Torniamo al nostro Ritratto di Commodo, e analizziamolo al terzo livello: quello iconologico. Come mai Commodo si vuole far rappresentare come Eracle? La risposta non è qui difficile, perché il ruolo simbolico dell’eroe Eracle è molto chiaro nella tradizione: Eracle è l’eroe che ha combattuto la morte e infine conquistato l’immortalità passando attraverso le dodici fatiche. Commodo è ritratto nei panni di Eracle e quindi capiamo quale vuole essere il messaggio: come l’eroe anche Commodo, dopo le fatiche, cioè le sue imprese, ha conquistato l’immortalità. Commodo si pone dunque come “alter-Eracle”. Questo è il punto di arrivo finale della critica d’arte, che non sempre è così facile da raggiungere.
La parola “iconologia” non è antica, ma è stata usata per la prima volta da Cesare Ripa (1565-1622), nel titolo della sua opera Iconologia overo Descrittione Dell’imagini Universali cavate dall’Antichità et da altri luoghi (1593). Il Ripa era il “trinciante” del cardinale romano Anton Maria Salviati, cioè aveva il compito di tagliare la selvaggina a tavola. Il trinciante era tuttavia una figura intellettuale, in quanto, mentre svolgeva il suo compito, faceva conversazione con una cerchia ovviamente appartenente a un’élite intellettuale. Era dunque molto più di un cameriere, e il nostro Ripa fu addirittura nominato cavaliere. L’Iconologia ebbe da subito un gran successo e ne seguì una straordinaria sequenza di ristampe. In sostanza l’opera consisteva in un dizionario di immagini rappresentanti allegorie di cui Ripa spiegava la ragione, il significato e i simboli. L’iconologia dunque, fin dalla sua origine, è il discorso che si fa non sulle immagini come tali, cosa che attiene all’iconografia, ma sui significati allegorici e simbolici delle immagini. L’opera di Ripa fu di fondamentale importanza per gli studi iconologici moderni. Le opere rinascimentali, infatti, sono piene di elementi simbolici e allegorici e grazie all’Iconologia ci troviamo in possesso di preziosi documenti e testimonianze di interpretazione.
Una figura chiave della storia dell’iconologia è lo storico d’arte e critico Aby Warburg (1866-1929), che amava definirsi “amburghese di cuore, ebreo di sangue, d’anima Fiorentino”. Warburg apparteneva a una famiglia ebrea di banchieri con grandissime risorse economiche. Fin da giovanissimo aveva concordato con il fratello che questi avrebbe avuto mano libera nella gestione della banca, mentre lui avrebbe avuto accesso libero al patrimonio per l’acquisto di libri. Si interessò in particolare alla continuità dell’arte antica nel Medioevo e nel Rinascimento. Certe immagini infatti continuavano a venire riproposte senza perdere la loro potenza narrativa, il che mostrava come la memoria dell’antichità restasse viva nel corso della storia dell’arte; proprio questo poteva dare importanti informazioni riguardo all’iconologia. Warburg creò nella sua casa di Amburgo una grande biblioteca, che divenne un luogo di interesse e incontro per vari studiosi, come ad esempio Ernst Cassirer e Erwin Panofsky; non pubblicò mai niente in vita. Venne pubblicato postumo il suo saggio sul rituale del serpente, in cui erano raccontate le modalità della festa religiosa dei Pueblos, in Nuovo Messico. Il serpente, nel rituale, voleva rappresentare il fulmine: i fulmini erano infatti visti come serpenti che colpivano dal cielo; secondo Warburg questa caratteristica rappresentativa poteva ritrovarsi anche nel mondo greco.
Dopo la morte di Warburg, la sua biblioteca continuò a vivere grazie alla collaborazione del circolo degli studiosi che si erano riuniti attorno a essa. Quando Hitler prese il potere, per essa iniziarono problemi, in quanto creata da una famiglia ebraica. La situazione fu salvata grazie all’intervento di studiosi inglesi, che invitarono ufficialmente in Inghilterra la biblioteca di Warburg per tre anni. La biblioteca poi rimase in Inghilterra. In questo modo, tutto il preziosissimo materiale raccolto da Warburg fu salvato. La biblioteca, accresciuta, è presente tutt’oggi ed ha caratteristiche peculiari, perché è stata lasciata come l’aveva organizzata Warburg: l’ordine a scaffale non rispetta i normali criteri, ma è basato sulle associazioni di idee. Vicino a un libro, dunque, non troviamo libri dello stesso argomento, ma libri legati a quello da nessi associativi che è nostro compito riconoscere se vogliamo svolgere una ricerca. Cassirer scrisse che la biblioteca di Warburg era pericolosa, perché lo studioso non era più regista della propria ricerca. L’esperienza dello studioso nella biblioteca consiste, infatti, nel lasciarsi guidare dalla biblioteca stessa attraverso le associazioni di idee, il che porta anche a creare nessi che si sarebbero altrimenti tralasciati.
È proprio questa l’idea del metodo iconologico di Warburg. Allo stesso modo che nella biblioteca noi dobbiamo avvicinarci all’opera pronti a farci guidare, non dobbiamo pretendere di essere i registi della nostra ricerca sull’opera d’arte né tanto meno voler semplicemente fruire dell’opera in modo superficiale, come nel caso di un oggetto ornamentale piacevole a guardarsi. Dobbiamo avvicinarci alle opere, percorrendo i tre livelli, con modestia e lasciare che sia anche la potenza evocativa delle immagini a guidarci. Solo così, secondo questo metodo, si può arrivare a comprendere il messaggio artistico, in un rapporto con l’opera d’arte che assume una vera rilevanza e che arriva ad aprirci nuovi occhi.
Beniamino Peruzzi
Il contenuto dell’articolo proviene dagli appunti del corso di “Mitologia classica e iconografia” tenuto dal Prof. Maurizio Harari cui l’editor rivolge sentiti ringraziamenti
Bibliografia
Erwin Panofsky, Meaning of visual arts, 1955, Garden City
Filostrato Maggiore, La Pinacoteca, 2010, Aesthetica
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