Cinque nomi di poeti – Il tramonto e la notte del ruolo sociale della poesia oggi

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Nell’aula serpeggia un mormorio inquieto: ci guardiamo intorno, cerchiamo le mani alzate, le contiamo. “Alzi la mano chi di voi conosce almeno cinque poeti italiani viventi.” Due su settanta. Più della metà di noi sa elencare i nomi di cinque scrittori di romanzi e un numero quantomeno decente può vantarsi di conoscere altrettanti registi. Ma poeti? Viventi, tra l’altro. Cerco di ricordare, cerco disperatamente di ricordare, perché mi sembrerebbe inappropriato non sapere neppure un nome. Luzi? No, aspetta: è morto poco tempo fa. Sanguineti? Non li so: non so i nomi di cinque poeti viventi e non mi consola l’idea di essere in buona compagnia. E’ imbarazzante trovarsi in quest’aula, frequentare letteratura contemporanea, essere iscritti a lettere moderne e non aver mai letto un libro di poesie di un autore la cui data di morte non campeggi orgogliosa sul risvolto di copertina. Imbarazzante è un eufemismo. Eppure è così. Due su settanta.

La poesia ha perso il proprio mandato sociale: questa è la verità e noi ne siamo la prova. Ne sono la dimostrazione i piccoli circoli di scrittori tristemente autoreferenziali, la lettura pubblica di poesie di fronte ad una ventina di persone annoiate, persone che, probabilmente, scrivono pure loro e dopo venti minuti smaniano dalla voglia di declamare le proprie composizioni, persone che sono intellettuali, finti o veri non fa molta differenza.

Walter Benjamin è stato il primo a parlare di una perdita del mandato sociale della poesia. Scrive che C. Baudelaire è l’ultimo poeta in Francia ad aver avuto un successo di massa, dopo di lui la borghesia ha ritirato il mandato alla poesia. In Italia potremmo ritracciare questo importante, ultimo, ruolo nella famosa triade Carducci, Pascoli, D’Annunzio: basti pensare al discorso di promozione per la conquista della Libia, La grande proletaria si è mossa, o allo stile di vita estetizzante dannunziano. Potremmo addirittura affermare che D’Annunzio non era solo una figura pubblica, ma una celebrità.

La generazione del 1880, invece, comprende di aver perduto il proprio mandato sociale, si trova a confrontarsi con un mondo borghese a cui non interessa la poesia e con un’arte che procede verso un’innovazione formale comprensibile a pochi, che scandalizza la maggioranza (ad esempio il futurismo). La poesia reagisce spesso con aggressività e scherno di fronte a un pubblico che la sta progressivamente emarginando. Un esempio è la canzonetta Lasciatemi divertire di Aldo Palazzeschi (1885-1974): essa si sviluppa in una struttura teatrale, in cui la voce del poeta e quella dell’interlocutore, un borghese per bene, sono interrotte da espressioni burlesche onomatopeiche, come balbettamenti di bambini o versi animali. Il borghese si scandalizza: “Che cosa sono queste indecenze?” La risposta arriva all’ultimo, in chiusura: “Infine, / io ho pienamente ragione, / i tempi sono cambiati, /gli uomini non domandano più nulla / dai poeti: / e lasciatemi divertire!”.

Un altro modo di reagire alla perdita del ruolo sociale è quello che si esprime nel tema della vergogna della poesia, che si estenderà presto a tutta l’attività intellettuale, ma che colpisce per primi i poeti in quanto frangia più fragile, dediti ad un atto socialmente insignificante, addirittura di massa. L’intellettuale è colui che riflette e per far questo è necessario che esca dalla prassi, dal fluire della vita: non sa vivere (come l’inetto di Svevo o il gelido esteta, il sofista, di Gozzano) e non sa agire. Per questo, viene visto con disprezzo dalla borghesia, che propugna valori e certezze, mentre l’intellettuale è solo in grado di decostruire le norme, preda della consapevolezza della sterilità della vita, vittima di un nichilismo che non offre alcuna liberazione, ma solo dolore e infelicità. Scrive Guido Gozzano (1883-1916) ne La signorina Felicita: “Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!” Vorrebbe partecipare alla vita attiva, essere come il mercante o il farmacista, ottimisti nelle loro ottuse certezze, eppure, al tempo stesso, li disprezza perché consapevole della propria superiorità e li compara ad animali, in oblio, come il gregge leopardiano, come le bestie di Nietzsche. Gozzano mette in scena un conflitto tra due mondi: uno scontro irrisolvibile, da cui non uscirà alcun vincitore.

Nel Novecento c’è solo un momento in cui i poeti si illudono di poter riacquistare il proprio ruolo sociale: durante la resistenza. Dal ’45 fino agli anni ’70 assistiamo, infatti, ad una politicizzazione della poesia; esempi del problema del rapporto tra letteratura e politica ci sono offerti da Montale (1896-1981), Saba (1883-1957), Quasimodo (1901-1968), che rinnega la visione tipicamente ermetica della realtà come peso e della poesia come separatezza. Il poeta pensa di poter parlare a nome della collettività: Montale lo fa presentandosi come testimone, mentre Quasimodo assume il ruolo di oratore.

Nasce in questo momento il problema della giustificazione della letteratura, del privilegio di potersi dedicare ad un’attività così narcisistica, mentre altri sono condannati ad essere oppressi e sfruttati. Il legame tra poesia e politica è evidente in Pier Paolo Pasolini (1922-1975), che denuncia le condizioni del sottoproletariato e la corruzione della classe politica dirigente.
Brecht (1898-1956) sostiene che la letteratura verrà esaminata da coloro che non sanno leggere e questa idea è ripresa anche da Fortini (1917-1994), per il quale chi scrive deve farlo per giustificarsi agli occhi di coloro che sono esclusi da ogni privilegio. Nel Sonetto dei sette cinesi, gli interlocutori, operai stranieri, “sanno che non scrivo per loro./ Io so che non sono vissuti per me./ Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto/ più candide parole o atti più credibili.”

Negli anni ’80-’90, il topos della giustificazione della letteratura scompare, perché gli intellettuali non si sentono più classe privilegiata ma poveri e precari. Di nuovo, emerge chiaramente la consapevolezza della perdita del mandato sociale della poesia, a favore di altre figure, come quelle dei cantanti. La poesia si chiude, dunque, in se stessa; nella maggioranza dei casi si accartoccia sulle proprie esperienze, sul proprio io lirico, in un individualismo e soggettivismo, che aveva fatto la sua prima comparsa con il romanticismo e l’introduzione del verso libero.

Torniamo quindi al presente e all’imbarazzo da cui siamo partiti. Il triangolo descritto da Pierre Bourdieu (1930-2002) permette di capire a pieno il nostro problema: poniamo ai tre vertici l’autore, il lettore e le istituzioni, la scuola, i mezzi di comunicazione della cultura (questo schema nasce in realtà da uno di tipo religioso tra Dio, il fedele e le istituzioni). Ai giorni nostri il triangolo è collassato perché uno degli angoli è scomparso: rimasti solo scrittori e pubblico, il loro dialogo è divenuto sempre più intimo, spesso sono addirittura arrivati a coincidere. Per questo ci troviamo in tristi sale di lettura con meno di venti persone, inchiodate alla sedia dalla smania di poter intervenire.

In conclusione, la poesia ha perso il proprio mandato sociale, ma è diventata un fenomeno di massa. Ne è un esempio lampante il Festival dei poeti di Castelporziano, 1979, quando il pubblico ha cacciato i poeti ed è salito sul palco per leggere le proprie poesie, acclamato o insultato del resto dell’audience.

Chi non ha mai scritto qualche verso, anche da bambino o da adolescente innamorato? Chi non è caduto nella trappola narcisistica di credere che le proprie piccole creature, due o tre versi in una metrica più o meno scorretta, potessero significare davvero qualcosa? La verità è che quasi tutti scriviamo o abbiamo scritto; si moltiplica il numero di coloro che pagano anche migliaia di euro per avere tra le mani il prezioso cartaceo rilegato del proprio manoscritto; e con loro si moltiplicano gli inserti pubblicitari di piccole case editrici disposte a pubblicare qualsiasi inedito. Scrivere è un vezzo, è una moda, è un’illusione più o meno reale di essere letti e apprezzati. L’ironia è che, mentre ci adoperiamo ad inabissarci nei meandri dei nostri sentimenti e tirarne fuori le parole specchio di ciò che siamo o vorremmo essere, non abbiamo idea di quali siano gli altri poeti, quelli che hanno già scritto, che riconosceremmo come nostri simili e contemporanei.

Adesso la poesia è la grandezza di autori morti da tempo e studiati con rispettosa passione, divertimento e illusione di massa e triste chiusura di piccole élite autoreferenziali. Di sicuro, non le è riconosciuto alcun potere di cambiare la realtà.

E allora? Scrive Fortini: “La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.”. Oserei aggiungere: leggi.

Federica Avagnano

Bibliografia

Guido Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, 2005

Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Mondadori, 1978

http://www.leparoleelecose.it

www.caffenews.it

http://www.scrittoriperunanno.rai.it

http://stradeperdute.files.wordpress.com/2008/05/diario-1.jpg

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