Veniamo ora al nostro San Sebastiano. Anche in questo caso si tratta di un personaggio la cui vicenda storica si mescola a componenti leggendarie, il culto del quale risale ai primissimi secoli dopo Cristo. Nato a Milano o in Gallia Narbonense da famiglia comunque milanese, Sebastiano entrò nell’esercito imperiale per difendere i cristiani che al tempo, da parte di quelle stesse milizie, già subivano ed avevano subito persecuzioni. Celebre l’impegno nella visita ai correligionari carcerati. A Roma i gemelli Marco e Marcelliano erano stati imprigionati e condannati alla decapitazione. Il Santo, recandosi come di solito in visita, venne a sapere che i loro genitori avevano ottenuto una proroga dell’esecuzione, per cercare di persuaderli ad abbandonare il cristianesimo. La sua predicazione tuttavia non solo confermò nella fede i fratelli, ma convertì i genitori ed il carceriere e risanò la moglie di questi da un morbo. Altre persone contestualmente si convertirono, ed i gemelli furono liberati. Come conseguenza di questo e simili episodi, anche il prefetto di Roma si convertì, suscitando in tal modo l’attenzione dell’Imperatore Diocleziano. Costui condannò Sebastiano ad essere legato ad un albero e trafitto da frecce; ma quegli, dopo aver patito il supplizio, pur creduto morto sopravvisse. Morì a Roma nel 304 sotto una persecuzione di Diocleziano, e fu sepolto sulla via Appia in luogo detto locus ad catacumbas, cioè presso le grotte; una depressione geologica dove tutt’oggi sono presenti basilica e catacombe di San Sebastiano. Da qui hanno preso nome tutti gli affini cimiteri sotterranei, scavati nella roccia, che si visitano nella Capitale ed altrove. Le frecce sono sovente associate alle malattie, tanto in ambito precristiano quanto nella tradizione medievale; a causa del fatto che Sebastiano per Grazia di Dio vi resistette, la pietà popolare nei secoli gli ha associato la salvezza dalla peste.
L’iconografia di Sebastiano nel Medioevo è attenta al fatto che egli fosse un soldato, o cavaliere, cristiano. Spesso lo si trova in abiti militari, anche da torneo, con una freccia in mano in allusione al martirio. Nel Rinascimento, con lo studio antiquario dell’eredità romana, e via via anche greca, il Santo viene interessato a più livelli da sperimentazione anatomica e plastica. Ecco allora che viene rappresentato seminudo, statuario, trafitto da frecce.
Antonello da Messina attua in pieno tali premesse. La figura si erge in posizione stante, legata quasi in tutt’uno all’albero spoglio sul retro. Coperta solo da un perizoma, si presenta secondo una sintesi volumetrica e naturalistica. La torsione che dagli arti inferiori irradia il busto la testa conferisce una sorta di contrapposto antico: gamba e braccio a destra rilassati, gamba e braccio sinistri in tensione. Tipicamente antonellesco è il volto: un ovale dove la dolcezza dell’incarnato, delle labbra e degli occhi, le rotondità del naso e dei riccioli molli, trovano riscontro tridimensionale nella luce che vi batte.
Nella carriera di Antonello la luce è uno degli elementi più peculiari. Egli parte dal sostrato culturale fiammingo: la Sicilia e Napoli aragonesi hanno rapporti commerciali e politici fittissimi con le fiandre, che all’epoca sono l’emporio d’Europa. Il dominio mediterraneo degli aragonesi stabilisce così, al sud-occidente, una koinè culturale fiamminga, che nel XIV-XV secolo informa gran parte della produzione catalana e sud italiana. Tuttavia ai bagliori soffusi e liquidi, ai riflessi gemmati degli inizi il messinese mescolerà l’esperienza centro nord italiana: il chiarore totale e diafano di Piero della Francesca, e le nette, scultoree linee d’ombra di Andrea Mantegna e Giovanni Bellini.
La luce nel San Sebastiano giunge ad una delle punte di massima resa. Con vigore essa tornisce non solo il volto, come detto; ma anche un corpo adolescenziale che, sulla scia degli scambi veneti con la Grecia, al di là dell’Adriatico, sembra provenire dal mondo più propriamente ellenico.
Il Quattrocento veneto, con la bottega padovana di Squarcione, riceve molti apporti di classicità propriamente detta, cioè dallo stile severo a Fidia, Prassitele, Policleto, Lisippo (V-IV sec. a.C); l’Italia del centro nord comincia a conoscere direttamente un patrimonio altrimenti noto solo per i resti ellenistici mediterranei e l’arte romana. Il collegamento deriva dai legami commerciali e politici adriatici, intensificandosi con l’avanzata dei turchi da oriente e l’emigrazione verso la penisola di bizantini e greci. Un processo analogo dovrebbe essere avvenuto anche in Toscana, per vie altrettanto mercantili e finanziarie, ma l’argomento è attualmente meno studiato.
La silhouette del San Sebastiano si staglia ancora di più grazie alla propria ombra, che vertiginosa si appiattisce sul terreno in basso a destra. Si guardi ora la forza delle linee d’oscurità nelle architetture: il ponte tra i due corpi di fabbrica sulla sinistra, le lunette della volta che al centro tronca la fuga delle linee. Tutto è ordinato ad una prospettiva scientifica: le mattonelle della piazza formano una griglia, su cui risalta il cilindro della colonna riversa a destra, motivo che segna la caduta del mondo pagano per il trionfo cristiano; o ancora le arcate che scandiscono il fianco sinistro, sotto cui dorme steso in scorcio ardito un soldato. Notare i merli a sinistra in alto, ritmati più dalla luce che dal disegno. Sembra ancora di sentir sferzare le frecce nel vento, tanto esse assumono ruolo di direttrice luminosa e prospettica. Il porticato che separa la spianata dal porto interrompe e chiude la composizione, concentrando l’osservatore sul soggetto dell’opera; questi potrebbe a buon diritto disperdere lo sguardo all’infinito fino all’orizzonte, ma quasi delle quinte sceniche lo riportano all’ordine. Il punto di vista ribassato è forse ispirato da Mantegna a Padova, negli affreschi della Cappella Ovetari (1448-1457) alla chiesa degli Eremitani. Sempre colà si trova inoltre una figura di San Cristoforo martirizzato in posa simile al soldato dormiente della pala di San Sebastiano. Mantegnesche anche le nuvolette, che cristalline vengono come intarsiate nel cielo, trascolorante dall’azzurro lapislazzulo alla foschia del fondale. Le botteghe venete di Andrea Mantegna e Giovanni Bellini si riconoscono ancora nei toni chiaroscurali trattati, e per l’ambientazione del martirio. I merli frastagliati, i comignoli strombati, i balconcini aggettanti, i ponti, l’armonia tra l’acqua e il costruito: siamo a Venezia. Se confrontassimo gli scorci della città realizzati da Jacopo e Gentile Bellini, padre e fratello del più eminente Giovanni, fino ai vedutisti del XVIII secolo (Canaletto, Bellotto, Guardi), ne saremmo confermati.
Un altro elemento che invece Antonello non mutua dalla cultura ospite, ma gli è patrimonio personale, è il dettaglio. Tutta la scena è inquadrata da poche significative scenette o accorgimenti: i due soldati a destra che indicano un punto tra il dormiente ed il Santo, introducendo un ulteriore corpo prospettico con lo scorcio del braccio; o la madre col bimbo a sinistra, i passanti sul lungomare, le fanciulle alla terrazza ed i tappeti; le sculture parietali, i conci grigi nei paramenti murari bianchi ed i vasi colorati; qualcuno si affaccia a sinistra in alto, e due dotti pierfrancescani filosofeggiano sulla destra, al centro della linea di fuga tra soldati e passanti.
In chiusura, non possiamo non ripensare alle storie dei Santi che abbiamo evocate. Al netto del favoloso di alcune vicende care alla devozione, specialmente man mano che queste risalgono nel tempo, guardiamo a chi sia il Santo cristiano.
Egli, o lei, è anzitutto un essere umano; essere la cui natura, cioè, in tutto è identica alla nostra ed in nulla può dirsi divina o solo “superiore”.
La santità è dunque una condizione che può riguardare ogni uomo; essa ha il presupposto nell’essere chiamati dalla divinità a prender parte della sua gloria, già da questa vita e per l’eternità; la chiamata universale alla santità è stabilita dal fatto stesso che il Creatore abbia creato, perché spinto dall’amore di voler condividere la propria bellezza con le creature. L’uomo diventa propriamente santo quando risponde a tale chiamata con la fede e con opere. La Chiesa cattolica individua tra questi santi dei modelli che possano far da esempio al popolo cristiano; costoro, dopo un’attenta indagine, sono pubblicamente proclamati dal Pontefice ed iscritti nel catalogo dei Santi. La condizione è che questi modelli siano persone la cui esistenza terrena sia conclusa, e di cui si possa dimostrare attraverso dei segni l’effettiva vicinanza a Cristo (ad esempio dei miracoli in vita ed in morte, oppure delle capacità non ordinarie). La santità quotidiana di coloro che vivono e muoiono senza miracoli o simili, non è da meno dei Santi ufficialmente iscritti; ma non essendo dimostrabile non può venire presa a modello.
I Santi possono essere oggetto di venerazione. Ossia, se ne coltiva la memoria e la lode, per trarne frutti spirituali, intellettuali e materiali. Non possono essere adorati dunque, perché non sono creature divine. Essi sono, in terra e/o in cielo, intercessori del loro prossimo presso la divinità. Quando nel linguaggio comune il Santo “fa la grazia”, più propriamente la ottiene da Dio, l’unico che può agire in via soprannaturale. Ogni santo è interessato a pregare per il prossimo per realizzare la comunione dei santi, ossia che tutta la chiesa, intesa come assemblea dei credenti in Cristo e corpo mistico di Cristo stesso, partecipi come un unico corpo al progetto divino di salvazione. L’assemblea-chiesa infatti fino alla fine dei tempi si divide in tre parti: chiesa militante, ossia sulla terra; chiesa purgante, ossia le anime del Purgatorio; chiesa trionfante, ossia le anime del Paradiso. Ma queste tre parti sono un’unica chiesa, indivisibile in virtù della comunione con l’unico Dio.
Anche i Santi più rocamboleschi dunque sono persone che esistettero in carne ed ossa, operando entro precisi tempi e luoghi storici. La Chiesa nei secoli, pur non potendo sempre sanare documentazioni lacunose, si è sempre premurata da un lato di accertare l’esistenza (e l’effettiva santità) dei Santi oggetto di culto, dall’altro di espungere dal catalogo tutti i Santi che non fossero confermati da vagli successivi. Così avveniva ed avviene per le devozioni; il culto di ogni Santo è regolato dalle autorità ecclesiastiche, locali o meno, perché non assuma forme in contrasto con il primato del divino sull’umano.
Consegue che si possano venerare anche le immagini, tanto di Dio quanto dei Santi. Le immagini sono un tramite che di per sé non ha valore taumaturgico o sacrale; lo assume in quanto induce l’osservatore ad una particolare preghiera o pellegrinaggio, lo ammonisce su aspetti vari, lo radica spiritualmente su di un territorio. Ancora, non è l’immagine sacra che ottiene grazie; è il Santo raffigurato, che a sua volta le ottiene da Dio mediante la preghiera di intercessione.
Ferruccio Botto
Con amicizia letto da Guido Scatizzi
Bibliografia:
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Immagine:
Antonello da Messina, San Sebastiano, olio su tavola trasportata su tela, cm 171×85, 1478-1479; Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemaeldegalerie.
http://www.poderesantapia.com/images/art/antonellodamessina/sebastian700.jpg Ultima consultazione URL 13/12/2015