Antonello di Giovanni de Antonio nasce a Messina ed ivi muore all’età di più o meno cinquant’anni (1429/1430 – 1479). Meglio noto come Antonello da Messina, egli si segnala tra i più italiani dei pittori quattrocenteschi. Pur nato e cresciuto entro un ambiente al tempo periferico, toccherà in persona parti d’Italia assai diverse.
Pochi sono i documenti che lo attestino con certezza, e tuttavia essi punteggiano un quadro movimentato. Lo vediamo formarsi e lavorare presso alcuni centri insulari; apprendista a Napoli poi (c.1450) da Colantonio, Maestro aggiornato sulla cultura fiamminga e fra i maggiori del baricentro sud italiano; passa dalla Sicilia in Calabria (1457), per risalire ancora fino a Venezia e forse Milano (1474-1476). In ultimo tornerà in patria (1476), dove due anni dopo una morte prematura lo coglierà all’apice della carriera.
Giocoforza, tanto per evoluzione stilistica quanto per necessità geografica, il viaggio più importante e lungo della sua vita avrà comportato rilevanti tappe in Toscana, Marche ed entroterra veneto; aree culturali che almeno dagli anni Venti del secolo accoglievano i Pittori di Luce nel fiorentino (Masaccio, frate Angelico, Filippo Lippi, Domenico Veneziano, Andrea del Castagno…), Piero della Francesca tra Firenze le Marche e la natia Borgo San Sepolcro (oggi Sansepolcro in provincia di Arezzo, fino al 1440 confine nelle contese di Rimini con Firenze), Squarcione e Andrea Mantegna a Padova. A Venezia egli entrerà in osmosi più diretta con l’ambito di Giovanni Bellini, proprio coetaneo e cognato di Mantegna, altrettanto consapevole della lezione pierfrancescana. Del viaggio transappenninico non restano particolari evidenze documentarie, rendendo così buona parte dell’attività difficile ad inquadrarsi. Fatto emblematico, la prima opera da lui firmata e datata è il Salvator mundi (Londra, National Gallery), e solo nell’anno Millesimo quatricentessimo sexstage/simo quinto (1465); molto il Nostro ha dipinto ben prima di questo termine, il che dà altrettanto lavoro agli storici dell’arte.
Alla fine della carriera si riferisce uno dei dipinti più conosciuti ed apprezzati dell’artista: il San Sebastiano oggi a Dresda (1478-9), trasportato su tela dalla tavola originale. L’opera era parte con altre due tavole perdute del Trittico di San Giuliano dedicato a tre santi taumaturghi e particolarmente venerati in caso di peste: oltre a Sebastiano, San Rocco e San Cristoforo. Il nome deriva all’oggetto dalla chiesa di San Giuliano a Venezia, in una cappella della quale si ritrovava per la preghiera la confraternita di San Rocco, qui committente di Antonello. Le componenti che oggi mancano forse furono danneggiate già nel XVI secolo. Difatti, un inventario della confraternita nel 1533 cita il trittico senza lasciarne supporre un’alterazione; ma il letterato Francesco Sansovino cinquant’anni dopo (1581) ne parla come avente al centro un “San Rocco fatto di rilievo”. Questa testimonianza implica due cose: anzitutto, il San Rocco dipinto che si evince dal primo documento non sussisterebbe nel secondo; l’ultima, il San Rocco “sparito” sarebbe stato sostituito da una scultura forse a bassorilievo. La chiesa di San Giuliano già quando Sansovino scrive aveva subito danni e rifacimenti sia esterni che interni, possibile motivo per cui non ci sia tramandata l’interezza dell’opera; un secondo fattore da considerare è il collezionismo di cui essa fu oggetto, che la smembrò già a partire dal Seicento.
Trittici rinascimentali italiani dove la figura al centro sia scolpita esistono, ed un esempio accessibile è quello, sempre per i Santi Sebastiano e Rocco, di Raffaellino del Garbo al pennello e Leonardo del Tasso allo scalpello (c.1500) in Santa Maria Maddalena de’Pazzi a Firenze. Peraltro, produzioni siffatte non abbondano e particolarmente in area veneta.
A suggerire la completa dipintura, ultimo fattore, è la presenza a Venezia negli anni Ottanta di trittici e pale dedicate ai medesimi Santi, ed aventi il medesimo taglio iconografico. Posto che gli artisti in esame, fra cui Cima da Conegliano e Bartolomeo Vivarini, sebbene contemporanei seguano indirizzi stilistici diversi, si suppone la presenza di un modello ispiratore vicino ed autorevole; a buon diritto questo potrebbe essere Antonello a San Giuliano. In genere non è scontato che un pittore debba guardare solo e strettamente ad altri pittori, e non anche a prototipi scultorei, ma allo stato qui sembra assai improbabile.
Per quanto riguarda datazione e scelta iconografica, dobbiamo tener presente un virulento focolaio di peste divampato a Venezia alla fine del 1477.
Il Santo invocato fino ad ora in questi casi, San Fabiano papa, non riesce più a sostenere la mole di pestilenze endemiche che dal 1348 vessano l’intera Italia. Si fanno così strada devozioni ad altri santi coinvolti in vicende di malattie spirituali e corporali, a Venezia consacrate con la pubblicazione a stampa di una Vita Sancti Rocchi (1478, presso Francesco Diedo). Nel 1478 stesso si costituisce a livello ufficiale la confraternita di San Rocco, con sede nella chiesa di San Giuliano, che ha come fine il culto del Santo per l’impetrazione curativa. Dunque l’opera non può risalire al periodo veneziano del Maestro (1474 – 1476), dovendo essere commissionata per forza di cose dopo la nascita del committente (1478). Antonello si trova a Messina ormai da due anni, e muore il successivo; ma la fama gli permette di avere una rete di estimatori, intermediari e lavoranti ancora sul campo veneto, per cui ricevere ordini e lavorare anche sulla grande distanza Messina – Venezia. Si ipotizza dunque che sia così avvenuto per il nostro polittico. Il decesso nel 1479 daterebbe la fine non già dell’opera intera, ma per via stilistica almeno del San Sebastiano superstite. La qualità è troppo alta per connotare la mano di un seguace o del figlio ed erede Jacobello. A riguardo, in basso a sinistra la tavola di Dresda presenta un cartiglio con lacerti della firma “[…] ll […] messaneus”. L’evidenza lascerebbe incerti se si tratti di [Antone] ll [us] ovvero di [Jacobe] ll [us], ma verosimilmente questo sarà un autografo del Nostro. Si tenga presente che la firma del Maestro, da Giotto e per tutto il Rinascimento, garantisce la bottega intera. In conseguenza, come lo stile di ciò che oggi vediamo conferma in pieno Antonello, così per le parti disperse c’è da supporre che effettivamente Jacobello e/o seguaci possano aver terminato il lavoro. Oltre alla logica per cui un’opera composita, oltretutto prodotta a distanza, richieda tempo che Antonello materialmente non avrebbe avuto, l’affermazione è suggerita ancora dalla testimonianza di Francesco Sansovino; egli, d’altra parte in modo non preciso, attribuisce il Trittico di San Giuliano al Nostro e ad un misterioso Pino. L’ipotesi più accreditata è che Pino stia per Jacopino, variante di Jacobello, il Jacobello di Antonello da Messina in questione.
La scelta agiografica e quindi iconografica, come a più riprese accennato, si collega strettamente all’epidemia.
San Rocco era un giovane di famiglia assai benestante, nato a Montpellier tra il 1345 ed il 1350. Persi i genitori all’età di vent’anni, vendette i propri beni ed entrò nel Terz’ordine francescano, per recarsi in pellegrinaggio a Roma. Strada facendo, s’imbatteva in diversi centri italiani dove dilagava la peste; il Santo senza timore vi si fermava, e tracciando un segno di croce sui malati operava in nome della S.Trinità prodigi e guarigioni. Arrivato a Roma nel 1367-68 guarì molti malati, tra cui un cardinale; questi, riconoscente, lo presentò al pontefice Urbano V. Dopo una serie di episodi miracolosi legati alla cura degli appestati, sulla strada del ritorno contrasse il morbo. Si ritirò dunque in un luogo solitario presso Sarmato (Piacenza), dove ottenne la guarigione mediante preghiere ed un provvidenziale cane che ogni giorno gli portava del pane. Morì tra il 1376 ed il 1379 a Voghera, territorio filoimperiale dei milanesi Visconti, dove era stato arrestato ed incarcerato per il sospetto di essere una spia papale.
Sulla base della biografia, gli attributi di distinzione del Santo sono: un paesaggio a metà tra l’urbano ed il selvaggio, abiti da gentiluomo cortese, il cane con la pagnotta, gli abiti del pellegrino (mantelletta, cappello a tesa larga, stivali, bastone, conchiglia). Nella pittura veneziana la prima raffigurazione compiuta del San Rocco è proprio questa persa di Antonello (1478); nel confronto fra esempi dei Vivarini e di altri veneti (dagli anni ’80 ai primi del Cinquecento), costoro sembrano replicare in dettaglio un modello tanto iconografico quanto compositivo. Si desume così che nel Trittico di San Giuliano sia stato introdotto il particolare fondamentale che segna una svolta di successo: la coscia scoperta a mostrare un bubbone sanguinante. L’ascesso pestilenziale tenderà sempre più a sostituire il cane, e farà del Santo un’icona per quanto riguarda la guarigione dalle epidemie.
San Cristoforo invece ha una storia dal profilo leggendario, ma è uno dei santi più anticamente venerati nella storia della Chiesa; vissuto nel III secolo, già nel V secolo un’iscrizione attesta una basilica a lui dedicata in Bitinia. L’agiografo Jacopo da Varazze (1228 – 1298) riporta la versione secondo cui il Santo sarà più conosciuto in occidente. Cristoforo era un gigante assai vigoroso, che fece proposito di mettersi al servizio del signore più potente. Dopo il passaggio da vari despoti locali all’imperatore romano, giunse fino a servire il demonio. Avendo tuttavia satana informato Cristoforo che il più forte signore è Cristo, egli si mise in animo di convertirsi. Dopo il discepolato presso un eremita, il Santo prese dimora vicino ad un fiume, dove aiutava i viandanti a traghettare. Un giorno un bambino arrivò per essere trasportato all’altra riva, e man mano che il gigante procedeva il peso del bimbo si faceva sempre più insostenibile. Questi gli rivelò di essere Gesù, e gli profetizzò il prossimo martirio. Cristoforo di lì a poco andò predicando in Licia ed ivi morì nella persecuzione di Decio imperatore (250 d.C.).
Il nome del Santo deriva dall’episodio di Gesù traghettato: Cristoforo è il Christoù phoròs, in greco portatore di Cristo. L’iconografia lo vede sempre con l’acqua di un fiume fino alle ginocchia, la corporatura possente, un bastone ed il Bambinello sulle spalle.
Al Cristoforo guaritore dalla peste si ricollega invece un secondo episodio. Nel 1445 un pastorello di Langheim (Baviera) ricevette alcune visioni di Gesù Bambino circondato prima di quattordici candele, poi da altrettanti fanciulli. Alla richiesta di spiegazioni, Cristo chiamò costoro i quattordici salvatori. Dopo alcuni episodi soprannaturali di lì nacque e si diffuse in Europa la devozione ai Quattordici Santi ausiliatori (i Vierzehnheiligen), ciascuno preposto alla salvaguardia da particolari malanni o calamità. Una pratica di culto simile era già documentata sempre in Germania nel XIII secolo, ma si intensificò nel XV secolo dopo gli avvenimenti bavaresi. San Cristoforo era nel catalogo degli Ausiliatori, incaricato alla protezione dalla peste.
Ferruccio Botto,
Con amicizia letto da Guido Scatizzi
Bibliografia:
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– Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1993; punti 954-959, 2634-2636.
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Immagine
Antonello da Messina, Ritratto d’uomo (presunto autoritratto), 1475-6, 25.5×35.5, olio su tavola, Londra, National Gallery.