Problematica preliminare: bioetica come etica della vita
Approcciando l’affascinante e al contempo spinosa materia della bioetica, se ne intuisce immediatamente la singolarità. La bioetica si configura infatti come una disciplina ponte tra la sfera della vita (bios) e quella della morale (ethos), quasi una meta-disciplina che si occupi di affrontare le problematiche inerenti la vita umana sotto la guida più o meno sicura di una griglia di valori, ideali, punti di riferimento.
Proprio l’intersecarsi di ambiti (vita/salute; morale/etica), tanto ampi già autonomamente, complica inevitabilmente il discorso. Dovremo, o perlomeno tenteremo di focalizzare in che rapporto possano convivere le (apparenti?) antinomie fondamentali, che emergono affrontando un tema di tale respiro: morale e scienza, natura e artificio. L’intento è di individuare una sintesi che sia il più possibile armonica. La situazione contemporanea ci pone l’ulteriore insidia di offrirci un Occidente a buon diritto etichettabile, con il Prof. Faggioni, come «la terra degli estranei morali»[1], che si rifiuta di compiere un’armonizzazione etica condivisa e che, al contrario, passivamente acconsente a relegare l’agire moralmente indirizzato alla coscienza di ciascuno, con il risultato di un pericoloso relativismo etico. Un’arbitrarietà così esasperata rischia di consegnarci uno scenario catastrofico quando si applica a temi decisivi e fondanti quali la vita, la sua fine, la sua interruzione, il suo salutare mantenimento.
Terzo “soggetto in gioco”, talora quale sfondo, talora quale attivo protagonista, pare essere la scienza. Anche in questo caso, il suo sviluppo ed implemento ha dovuto e tuttora deve confrontarsi con le linee fondamentali del suo indirizzo, la già citata “griglia etica” entro la quale incasellare l’attività scientifica, al fine di evitare che «la razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostri irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore»[2]. Non sembra, infatti, azzardato ipotizzare una derivazione profonda di quella che oggi chiamiamo bioetica dalla lunga storia della deontologia medica, che ha nel Giuramento di Ippocrate (IV secolo a.C.) il suo più noto pioniere. Da sottolineare il cuore di questa promessa, che diviene un ottimo spunto per concludere queste considerazioni introduttive ed avviarci ad una trattazione strutturata:
Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo. Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte[3].
La questione etica, ovvero il rapporto morale – scienza
L’orientamento, proprio della moderna realtà globalizzata, verso un individualismo morale, derivante ineludibilmente dalla negazione di qualsiasi verità assoluta e quindi di qualsiasi assoluto morale, pare essere la riproposizione del modello degli Stati totalitari del XX secolo ribaltato. Se allora lo Stato rivendicava un’insindacabile signoria sugli individui e sulla regolazione dei loro comportamenti, secondo l’ideologia propria di ciascun sistema totalitario, adesso è l’individuo che rivendica nei confronti dello Stato un pieno liberalismo etico, un diritto alla autoregolamentazione slegato da un qualsivoglia indirizzo comune e condiviso.
La razionalità stessa è riconosciuta come limitata, come mutila della possibilità di stabilire un giudizio etico, un giudizio quindi di gerarchia. Eloquenti in proposito sono le affermazioni di Uberto Scarpelli, che arriva ad asserire: «nell’etica non c’è verità. I valori di vero e falso convengono alle proposizioni del discorso descrittivo-esplicativo; né un’etica può dirsi vera perché derivabile, come da assiomi»[4]. Il ruolo della ragione, incapace di stabilire la validità del merito, sarà dunque quello di assicurare la correttezza e la coerenza metodologica delle asserzioni morali individuali[5].
A ben guardare, tuttavia, il rousseauniano “contratto sociale” si fonda su giudizi che sono del tutto e teoricamente opinabili, e per questo talora disattesi dai consociati. Il comandamento «non uccidere», per esempio, è stato reso oggetto di una valutazione di giustizia e di rilevanza (non più e non meno di quel che accade per i giudizi etici) da parte del legislatore italiano, che ne ha deliberato la tutela con la relativa prescrizione di pene per i contravventori. Questo nonostante l’ipotetico suicida, l’assassino seriale o il kamikaze non fossero del tutto convinti, se non addirittura in disaccordo con il giudizio di merito divenuto legge.
In un campo come quello della bioetica sorge, tra l’altro, la necessità di accordare la visione morale, o, come abbiamo visto, le visioni morali, dell’attore (sia esso lo Stato o l’individuo) con la libertà e l’indipendenza della ricerca scientifica. I recenti sviluppi delle biotecnologie, non scissi dai continui progressi della medicina, hanno senza dubbio assicurato all’uomo d’oggi un miglioramento delle condizioni e della qualità di vita. Tuttavia, non sono da sottovalutare spinte verso un sedicente progresso che prescinda totalmente dall’indole precipua del soggetto umano.
Perché una simile linea non prevalga non sono sufficienti i pur fondamentali richiami etici e nemmeno le affermazioni di principio che non vi è contrasto tra scienza ed etica: è necessario incrementare e sostenere concretamente le ricerche e le tecnologie che si muovono, a differenza delle altre, nel rispetto e nella valorizzazione della specificità e dignità irriducibile del soggetto umano[6].
Esito estremo di un siffatto procedere, di una scienza senza etica, può essere l’identificazione della bioetica con l’ampliamento delle biotecnologie, una cieca fiducia nell’allargamento, grazie a tale progresso, della rosa delle possibili scelte in materia, senza infine avere il giusto metro per discernere.
La scienza, pur donando generosamente, dà solo ciò che deve donare. L’uomo non può riporre nella scienza e nella tecnologia una fiducia talmente radicale e incondizionata da credere che il progresso scientifico e tecnologico possa spiegare qualsiasi cosa e rispondere pienamente a tutti i bisogni […]. La scienza non può rispondere in modo esaustivo alle domande più radicali dell’uomo: domande sul significato della vita e della morte, sui valori ultimi, e sulla stessa natura del progresso[7].
In definitiva, la mancanza di un qualsiasi ruolo promozionale o d’indirizzo da parte della comunità organizzata (lo Stato), a monte, verso gli avanzamenti scientifici e, a valle, nella fase applicativa della scienza all’essere umano e alla sua esistenza, ci consegna una civiltà sempre più frastagliata, prigioniera di se stessa (come è di chi non sa decidere) e cittadini che credono di essere garantiti dalla più ampia e assoluta delle libertà, mentre si ritrovano disorientati e più facilmente preda dei più astuti, di coloro che agiscono per interessi personali, per denaro, per potere, che, per loro stessa natura, condurranno difficilmente verso il bene comune.
Guido Scatizzi
Con amicizia letto da Arnaldo Mitola
[1] M.P. Faggioni, «Bioetica. Un’etica per il nostro tempo», in Vivens homo 9 (1998) 1, p. 39.
[2] Benedetto XVI, lett. enc. Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 70, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009.
[3] Il testo di Ippocrate è citato da L. Sebregondi – P. Viti – R.M. Zaccaria (a cura di), Il medico. Immagini di una professione, Vallecchi, Firenze 2003, p. 13.
[4] U. Scarpelli, Bioetica laica, Milano 1998, p. 227.
[5] Cfr. Faggioni, «Bioetica», p. 40.
[6] C. Ruini, Chiesa contestata. 10 tesi a sostegno del cattolicesimo, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2007, p. 141.
[7] Benedetto XVI, «Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze» (Sala Clementina, 6 novembre 2006), in Fede e scienza. Un dialogo necessario, a cura di U. Casale, Lindau, Torino 2010, pp. 216-217.
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