1 Novembre 2015. In Turchia si è votato quello che di fatto è stato un referendum su Recep Tayyip Erdoğan, che da quindici anni è la figura politica più importante del paese.
Negli ultimi mesi la situazione politica della Turchia si è molto complicata e la stabilità del paese ne ha risentito parecchio. La Turchia è oggi schiacciata tra la guerra in Siria e contro l’ISIS da una parte, e una divisione politica interna dall’altra. Ecco una breve analisi dello scenario.
Erdogan e la crisi in politica interna
Recep Tayyp Erdoğan nasce il 26 febbraio 1954 a Rize. Inizia la sua carriera politica nei movimenti e nei partiti di stampo islamista e nel 1994 diventa sindaco di Istanbul.
Nel 2002 inizia il successo elettorale del suo partito (AKP). Oggi Erdoğan governa incontrastato, il suo elettorato è forte soprattutto nell’Anatolia centrale, dove risiedono i turchi che vivono il grande miracolo economico della modernizzazione.
L’attuale presidente turco ha costruito, infatti, il suo potere sul successo nel settore economico, accompagnato da un atteggiamento da leader arrogante che non lascia spazio ad altre forze politiche. Oggi, nonostante il suo inespugnabile palazzo presidenziale – nuovo di zecca – e la debolezza delle forze politiche all’opposizione, Erdoğan sembra vulnerabile.
Nel 2014, dopo tre mandati da primo ministro, si candida alla carica di presidente della Repubblica, incarico meramente cerimoniale. Ad Agosto dello stesso anno, Erdoğan viene eletto con circa il 51 per cento dei voti. L’obiettivo più importante del suo programma politico è una riforma della costituzione dai contorni ancora poco chiari, ma che ha lo scopo dichiarato di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale. L’opposizione, formata dal partito di centrosinistra CHP, dai nazionalisti di destra del’MHP e dai curdi dell’HDP, si oppone alla riforma e Erdoğan ha bisogno di ottenere una maggioranza di due terzi dei parlamentari per portare avanti la sua riforma.
Alle elezioni dello scorso giugno fallisce il suo obiettivo: per la prima volta in dodici anni l’AKP si è trovato senza i voti necessari a cambiare la costituzione e senza nemmeno una maggioranza assoluta con cui governare.
La questione Curda
La crisi politica si intreccia inevitabilmente con la questione curda, la minoranza etnico linguistica che abita in gran parte nella Turchia sud-orientale. Per anni i governi turchi hanno negato la stessa esistenza del popolo curdo, che ha subito discriminazioni, deportazioni e massacri. La stessa legge elettorale turca è stata pensata per impedire ai curdi l’accesso alla politica: lo sbarramento al 10 per cento in vigore in Turchia è il più alto al mondo ed è stato superato da un partito curdo per la prima volta soltanto lo scorso giugno.
Il risultato ottenuto dall’HDP – guidato dal 42enne Selahattin Demirtas – è stato storico. I curdi, però, non hanno sempre subito le discriminazioni e le violenze da parte dell’esercito turco senza replicare. Negli ultimi 30 anni, alcune formazioni curde di estrema sinistra, hanno iniziato a rispondere agli attacchi turchi utilizzando attentati terroristici. La più importante e conosciuta di queste formazioni è sicuramente il PKK, considerata un’associazione terroristica da Stati Uniti ed Unione Europea. HDP e PKK sono due gruppi profondamente diversi ma indissolubilmente legati: è principalmente grazie alla mediazione del partito di che, dopo 30 anni di scontri, nel 2013 il PKK ha firmato una tregua con il governo turco. Tregua che è stata ufficialmente interrotta nel luglio 2015 quando il PKK ha ucciso tre poliziotti turchi. In risposta, Erdoğan ha ordinato l’inizio di una massiccia campagna di bombardamenti aerei contro le basi del PKK e di arresti contro attivisti e simpatizzanti curdi.
La situazione in politica estera
Per anni la Turchia di Erdoğan è stata al centro di un grande gioco, comodo e rischioso al tempo stesso. Da una parte la Nato, gli Stati Uniti e l’Unione Europea, dall’altra una regione in subbuglio. Fare il doppio gioco ha fatto perdere credibilità alla Turchia su entrambi i fronti.
L’ingresso della Turchia nell’Unione Europea sembra tramontato dalle violenze di piazza Taksim, ed il tentativo di influenzare le primavere arabe a Tunisi, al Cairo e a Tripoli sembra essere definitivamente fallito.
Angela Merkel, quando commentò con freddezza l’integrazione della Turchia nell’Ue, definì Ankara un “ponte tra due mondi”, sottolineando la necessità di non appartenere a nessuno dei due. Con il rischio, però, di rompere il collegamento con le sue sponde e restare isolato.
Come se questa situazione non fosse già abbastanza complicata, c’è da aggiungere l’ISIS. Dall’inizio della guerra in Siria nel 2011, la Turchia ha fornito appoggio e sostegno a numerosi gruppi di ribelli siriani e, almeno indirettamente, anche all’ISIS, con lo scopo di danneggiare il regime di Bashar al Assad e impedire la formazione di uno stato curdo in Siria. Negli ultimi mesi, la Turchia ha ridotto gli aiuti ai gruppi più radicali e ha iniziato ad arrestare i simpatizzanti ISIS. A luglio ha anche concesso l’utilizzo delle sue basi agli aerei americani che bombardano l’ISIS in Siria rendendo così il paese un possibile obiettivo per i miliziani dello Stato Islamico.
La fragilità economica
Fino a due anni fa, la Turchia vantava i fondamentali economici tra i migliori dei paesi europei. Un paese giovane, con un mercato interno in forte espansione, fatto di una nuova classe borghese con voglia di consumare. Nonché con una filiera di imprese che hanno saputo sfruttare al meglio per un decennio il fatto di essere confinanti con l’Eurozona, ma senza avere l’euro come moneta: per cui stipendi più bassi e prodotti competitivi da esportare nel Vecchio Continente.
Tutto questo ha permesso tassi di crescita elevati, con il PIL salito in alcuni anni quasi in doppia cifra. Tanto da fa parte del gruppo delle nuove “economie emergenti”. Un successo imprenditoriale concretizzatosi con l’acquisizione di società dell’Eurozona (in Italia è famoso il caso Lumberjack).
Poi la frenata, dovuta a un calo della domanda in Europa in seguito al calo dei consumi, ma soprattutto, all’inasprirsi dei conflitti, dalla Siria all’Egitto, mercati fondamentali per l’economia turca.
La crescita economica, dunque, sembra non essere più sostenuta. Secondo recenti studi, la Turchia oggi fa parte delle cd Fragile Five, ovvero le cinque economie emergenti che nascondono profonde debolezze strutturali.
Questi problemi sono tipici dei mercati in via di sviluppo, dove l’afflusso di capitali stranieri a buon prezzo permette al settore privato di indebitarsi con valuta straniera, per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano quando i capitali stranieri scappano via.
Le precedenti consultazioni.
L’AKP nel 2002, nel 2007 e nel 2011 ha sempre ottenuto la maggioranza assoluta di 550 seggi dell’unica camera del Parlamento turco. Lo scorso 7 giugno l’AKP non è riuscito a raggiungere i numeri necessari per governare da solo, rimanendo lontanissimo dall’obiettivo dei 330 seggi di cui ha bisogno per cambiare la costituzione e realizzare il progetto presidenzialista di Erdogan. Il 9 luglio lo stesso presidente ha conferito al premier Davutoglu l’incarico esplorativo. Con il naufragio delle trattative si è reso necessario fissare una nuova data per le elezioni.
La situazione attuale
L’1 Novembre, il partito di Erdogan, riconquista la maggioranza assoluta del parlamento turco. L’AKP sfiora il 50% dei suffragi e ottiene 315 seggi su 550, quaranta in più del necessario per governare in autonomia. Mancano però 15 seggi per poter modificare la Costituzione. In ogni caso, è una scommessa vinta dal presidente, che ha riportato il Paese al voto dopo soli 5 mesi. Secondo Erdogan, questo è “[u]n voto che dimostra come la nazione abbia scelto di proteggere il clima di stabilità e fiducia”. In una dichiarazione diffusa via email, ha anche mandato un messaggio al PKK: ”[l]e violenze, le minaccie e le carneficine non possono coesistere con la democrazia ed il rispetto della legge”.
Tutti e quattro i partiti principali sono entrati in parlamento. L’HDP, che Erdogan non è riuscito a cancellare, rivendica l’affermazione alle urne nonostante tutto fosse contro di loro. Avendo superato di poco la soglia del 10%, Demisrtas ha ribadito che “questa non è stata un’elezione corretta, non abbiamo potuto fare campagna perché dovevamo proteggere la nostra gente da un massacro. Ma è ancora una grande vittoria”. A Diyarbakir, la polizia si è scontrata con militanti curdi. La città, roccaforte dell’HDP, è considerata la capitale del Kurdistan turco, ma naturalmente il governo non la riconosce.
Di recente, però, sono emerse alcune divisioni all’interno del partito di Erdoğan. L’AKP è una coalizione di molte forze politiche che fino a questo momento sono rimaste unite soprattutto grazie al carisma e alla capacità del loro leader di raccogliere voti. Ad esempio, il primo ministro Ahmet Davutoglu sottolinea spesso come in caso di riforma della Costituzione dovranno essere previsti “pesi e contrappesi” per limitare l’autorità del presidente. Secondo Dombey, non tutti i leader del partito sono entusiasti davanti alla prospettiva di trovarsi di fronte un Erdoğan con ancora più poteri. Quindi, sebbene l’AKP sia molto vicino alla maggioranza dei due terzi, non è detto che le cose andranno come Erdoğan si aspetta.
Walter Baffi
Con amicizia letto da Arnaldo Mitola
articolo originariamente presente su: http://www.360giornaleluiss.it/attualita/02_11_2015/la-situazione-in-turchia-in-pillole/