La nostra Lepanto – Analisi di alcune ragioni per cui l’ISIS sarà sconfitto

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Di fronte ai terribili fatti di Parigi non si può che essere pervasi dalla più viva contrizione per le innocenti vittime del furore dei nemici della libertà. Nondimeno in momenti come questo importante è non cedere alle passioni dell’ira e dello sconforto, per reagire con lucidità e fermezza agli attacchi diretti contro le nostre città e più in generale contro il nostro sistema di valori. Se dunque la scienza politica a qualcosa deve servire oltre che a riempire sale di convegni e deserte biblioteche, oggi più che mai essa è chiamata a rispondere agli interrogativi del nostro tempo e, segno che forse il Novecento si sia chiuso davvero, ritornare ad offrire anche qualche pur fragile certezza innanzi ai dubbi che certo non mancano. Nostro desiderio è pertanto quello di fornire alcuni motivi tangibili per cui le nazioni civili (si vedrà poi perché usiamo questa espressione), possano confidare con ragionevoli margini di certezza in un futuro per loro roseo, ove ad essere sconfitti siano i propri nemici. Va detto ad onor del vero che non saranno certo le considerazioni di cui nel seguito a restituire alle proprie famiglie i martiri parigini dagli Inferi, ma se saranno servite ad evitare almeno un proiettile fra le nostre strade potremo comunque dirci soddisfatti. Vediamo dunque brevemente perché il futuro appartiene a noi e non al radicalismo islamico.

  1. Il Mercato

Potrebbe qualcuno dirsi sorpreso nel veder addotta a prima ragione di superiorità l’istituzione tanto bistrattata dai marxisti di diverso taglio e forse saremo accusati di seguir la moda dei tempi nell’appiattire la politica sul denaro. Ad un’analisi più accurata tuttavia tali critiche non avrebbero ragione di essere. Su di una parola insiste il discrimine: istituzione. Vogliamo quindi seguire una definizione, che, sorta nel solco tracciato da Durkheim e da Ortega, trova oggi una sua più completa formulazione grazie soprattutto ai lavori di Kathleen Eisenhardt e di Samuel Huntington come “insieme di modelli di comportamento, dotati di cogenza normativa tale da influenzare il comportamento degli attori sociali, siano essi individuali o collettivi”. Non si tratta solo di discutere di soldi e di quattrini, ma di un più ampio sistema di incentivi e disincentivi, capace di produrre a livello aggregato differenze sostanziali fra contrapposti sistemi. Buona parte della sociologia, dalla monumentale opera di Arnold Toynbee ai libri del nostro Luciano Pellicani, è concorde nell’affermare che in una certa misura il profondo divario materiale fra i Paesi occidentali e quelli del Medio Oriente sottosviluppato è da imputarsi alla permanenza al di qua del Mediterraneo dell’economia di mercato, che agendo su due linee parallele ha determinato precisi effetti. Queste due linee sono il rispetto delle libertà individuali e l’allocazione delle risorse, se non paretianamente efficiente, sicuramente migliore di quella che si produce sotto il peso di governi tirannici che vivono di rapina. I luoghi dove oggi è sorto il Daesh sono gli stessi che per lungo tempo sono stati occupati dall’Impero Turco, cui lo stesso Al Baghdadi ama riferirsi nella propria retorica propagandistica attraverso la rivendicazione di una improvvisata dignità califfale. Piace ricordare che a Lepanto le nostre navi ottennero una vittoria stupenda su quelle ottomane, che pure erano in soprannumero. Quale fu il miracolo che ci permise con meno imbarcazioni, meno soldati e meno marinai di infliggere ai servi delle verdi bandiere del Profeta una tanto sonora sconfitta? La risposta è da rinvenirsi nella superiore potenza di fuoco, frutto di una tecnologia più avanzata e delle maggiori ricchezze prodotte dalle tante piccole unità politiche raccolte nella Lega Santa contro l’unico pachiderma turco, oppressore in casa propria perché pubblico monopolista. Il mercato ci ha resi più forti, giacché pressati dalla concorrenza siamo diventati fisiologicamente innovatori e nell’elevare noi stessi siamo stati garantiti contro il pericolo che il visir di turno o chi per esso ci defraudasse dei nostri beni. Si badi a come questa non sia una mera posizione di parte, troppo generosa nei riguardi dei nostri sistemi economici. Fu lo stesso Ibn Kaldun, uno fra i più grandi scrittori islamici, oggi considerato un precursore delle scienze sociali, ad affermare già nel XIV secolo riferendosi alle società musulmane che “vessare la proprietà privata significa uccidere negli uomini la volontà di guadagnare di più, riducendoli a temere che la spoliazione è la conclusione dei loro sforzi” e ad aggiunger di rimando che i sudditi “una volta privati della speranza di guadagnare […] non si prodigheranno più”. Partendo da queste premesse concludeva dicendo che “quando gli uomini non lavorano più per guadagnare la propria vita e cessa ogni attività lucrativa, la civiltà materiale deperisce e ogni cosa va di male in peggio. Gli uomini per trovare lavoro si disperdono all’estero. La popolazione si riduce. Il Paese si svuota e le sue città cadono in rovina”. Sic! Se non avessimo poco sopra detto che l’autore fosse un notabile islamico del tardo medioevo, avremmo tranquillamente potuto scambiare queste righe per quelle del report di un osservatore delle Nazioni Unite. Se quindi l’ISIS vuole modellare se stesso sull’esempio dei Turchi (e per quanto gli è possibile lo sta facendo), calpestando così le risorse delle proprie terre per l’unico fine di dichiarare la guerra santa, è difficile non pensare che gli debba toccare la stessa sorte dei suoi predecessori.

  1. La Compattezza

Vincere nella nostra Lepanto questa volta sarà anche più facile, perché oltre alla superiorità tecnologica vantiamo anche quella numerica. La storia recente dello scorso secolo ci ha insegnato che aprire troppi fronti non è mai una scelta vincente. In questo momento il califfato ha praticamente largito minacce a chiunque. Mancano soltanto San Marino e il Liechtenstein e poi potremo dire che lo zelo guerrafondaio non abbia risparmiato nessuno. Fuor d’ironia dobbiamo riconoscere come questo nemico esterno stia conferendo un ordine più stabile a quelle che abbiamo definito nazioni civili. Perché abbiamo fatto ricorso a questa dicitura? Il motivo è semplice. Questa volta parlare di Occidente sarebbe un poco riduttivo. Il nostro vicino russo, che siamo stati anche troppo celeri nel sanzionare, dipingendolo come l’irriducibile antagonista che mai ha dato mostra di voler essere, è oggi schierato in prima linea contro i disordini della Siria, unico a volere (e forse potere) sostenere un’offensiva via terra. Ci è stata forse sottratta la bandiera dell’antiterrorismo? Noi diremmo di no. Piuttosto si è andato delineando un nuovo quadro dove la contrapposizione fondamentale non è più quella fra Washington e Mosca, ma fra Paesi ove esista diritto, sia esso più o meno di matrice costituzionale e territori ove viga l’arbitrio. Allora nel più vetusto solco della nostra riflessione politica possiamo distinguere fra una societas civilis ed una communitas naturalis, priva quest’ultima di un diritto autonomo che non sia fondato su basi eteronome, come quella costituita dal fondamento religioso della Sharia. Qui ogni potere ex definitione è illegittimo, perché non fondato su alcuna base costituzionale o legislativa, ma semplicemente sull’ordine imposto dalla forza, sicché in tutto e per tutto vale ancora la condizione che governa il regno animale, ove la bestia più feroce fa sentire più forte il proprio latrato. Con questo non si vuole dire che all’ISIS manchi un’organizzazione sul territorio, ma che essa sia qualitativamente diversa dalla nostra e più simile ad un imperio satrapico dell’Età Antica che non ad una forma di governo moderna. Questa riflessione ci conduce a due altri argomenti, ovvero all’orizzonte culturale dello stato islamico e al problema del consenso.

Utile è tuttavia aggiungere in tema di compattezza che mentre è lecito attendersi che con maggiori o minori attriti le nazioni civili riusciranno ad elaborare quanto meno per vie di fatto una strategia comune, senza troppi riguardi per le differenze che intercorrono fra il regime interno Federazione Russa e quello del sistema di Westminster (vedremo più avanti che esistono altre differenze oggi più rilevanti), non altrettanto scontato è raggiungere un’unità di intenti fra l’integralismo islamico. Quello che infatti spesso sfugge alla nostra comprensione è come il fronte della guerra santa salafita sia molto meno unito di quello che si palesa al nostro immaginario. Il tema sarebbe anche troppo articolato per essere descritto efficacemente in questa sede, tuttavia è opportuno rimarcare che i rapporti fra ISIS e Al-Qaida sono tutt’altro che di felice armonia. Le due organizzazioni poi, oltre ad essersi contese più volte il posto da capofila fra i dispregiatori della laicità à la newyorkese, differiscono oggi profondamente anche per le modalità operative. Se la compagine di Bin Laden rispondeva più ad un modello di “terrorismo in franchising”, fatto di azioni isolate ed eclatanti da attori dispersi che si autoidentificavano nel marchio di fabbrica, le forze di Bagdadi mirano invece alla creazione di una unità politica combattente e stanziata su un nucleo territoriale in espansione. Se il messaggio talebano era quello di infiltrarsi fra le stanze dell’Occidente, quello dell’ISIS odierno è invece un richiamo alla terra promessa e per questo non sono rari i video propagandistici in cui si chiamano a raccolta i puri affinché si rechino in terra di Siria. In questo secondo caso la permanenza fra gli infedeli, anche se potenzialmente utile, appare piuttosto come la scelta residuale. Va infine ricordato come l’ideologia di Daesh sia molto più totalizzante di quella di Al Qaida ed insegua velleitarie utopie palingenetiche ben più profonde di quelle cui eravamo abituati, ragione per cui non sono mancati episodi di violenza anche verso tutte quelle comunità musulmane che non si pongono in linea con l’ortodossia del califfo. Chiaro a questo punto è come l’ISIS faticherà sempre di più ad ottenere il favore di tutte quelle comunità entro i propri confini sulle quali abbia già scaricato la propria violenza.

  1. Il Consenso

In questi giorni invece sui profili Facebook di tutto il mondo le foto degli utenti si sono tinte di blu, bianco e rosso. In molti ironizzano su un’azione che pare più motivata da conformismo che da genuina solidarietà. La critica coglie nel segno; eppure ci si voglia quietamente domandare quando sia stato raggiunto un così alto grado di mobilitazione internazionale; quando per fatti per alcuni lontani migliaia di chilometri siano stati non solo i Governi, ma anche le popolazioni a reagire prontamente con sdegno e prese di distanza dalla violenza. Stiamo parlando di popoli che appena poco più di mezzo secolo fa erano pronti a sgozzare il vicino oltrefrontiera in nome di ideali di supremazia. Perché oggi un Tedesco, un Americano, un Indiano e, perché no?, un Algerino si tingono il volto del tricolore francese? Perché, piaccia o meno, in un attacco contro Parigi ci sentiamo lesi come se fosse casa nostra? Perché dopo decenni di stretta collaborazione fra Paesi, ogni cittadino comincia ad avvertire l’appartenenza ad una comunità un poco più ampia di quella dei patrii confini; perché l’educazione che abbiamo ricevuto, ci sollecita ad individuare fra coloro che professano la stessa nostra visione del mondo (dire a tutti gli uomini sarebbe un’utopia da illuministi ingenui) nostri simili in luogo di nostri contendenti. Sebbene quindi la sovranità statale, a scanso degli equivoci degli internazionalisti impenitenti, mantenga una capacità di influenza troppo radicata nel sentire comune per essere cancellata, l’intuito dei nostri cittadini suggerisce loro che di fronte a pericoli comuni sia meglio agire di concerto. Questo intuito prende infine nei governanti le sembianze di quella che chiamiamo razionalità, la quale come l’intuito guida alle scelte opportune, ma sulla base del calcolo inoppugnabile. Siamo così giunti ad un altro tema che ci differenzia profondamente da coloro che ci vorrebbero morti.

  1. La Razionalità

Quello che più ci spaventa dell’ISIS è il suo agire in difetto di razionalità. Razionale è quel comportamento basato su un calcolo a priori di costi e benefici, il quale, in una situazione di interazione con altri attori, ci conduce ad individuare, come lo stesso Nash avrebbe voluto, la miglior risposta a quello che stimiamo dover essere il comportamento altrui. Con Bagdadi tuttavia non si può giocare a scacchi. Assunzione basilare di tutte le teorie della razionalità interattiva, meglio note sotto la vulgata di Teoria dei Giochi, è che tutti gli attori conformino le proprie azioni a criteri di razionalità. Solo sulla base di questo presupposto è possibile anticipare l’avversario, perché possiamo immedesimarci nei suoi panni, sapendo che si comporterebbe allo stesso modo di noi se fossimo al suo posto. Se una razionalità esiste fra gli jihadisti è di altro tipo e va definita come razionalità assiologica o come razionalità rispetto al valore, per mutuare una terminologia weberiana. Noi spesso non comprendiamo il senso che soggiace all’abbandono della propria vita abitudinaria, all’ingresso in comunità settarie molto rigide e alla conclusione della propria parabola rivoluzionaria in atti di violenza cieca e sconsiderata. Questo ci intimorisce e ci disorienta. L’errore, nostro questa volta, è però quello di voler giudicare un’azione secondo i criteri della nostra idea di utilità attesa. Se invece provassimo a porci in un’altra linea di pensiero, assumendo come sommo bene la coerenza con il dettame di un odio radicale dovuto ad una fede incondizionata che non concede mediazioni, allora le azioni altrui diventerebbero immediatamente più comprensibili. Bisogna in altre parole smettere di pensare che per un rivoluzionario di vocazione la ricompensa debba essere misurabile in termini materiali e presenti, per accettare piuttosto che il senso del suo agire vada ricercato in un livello interiore e trascendente, che pone l’atto concreto del dispensare morte in forma di una missione cui adempiere senza se e senza ma. La domanda utile per comprendere come potrebbe agire uno dei nostri nemici non è formulata intorno a cosa possa fare per accrescere in termini attuali il proprio potere, ma quale sia l’azione più coerente con la sua insanabile avversione verso il nostro mondo cui ha dichiarato una guerra totale e senza ritorno, fra il ventaglio di quelle impossibili. L’attacco terroristico è la risposta pronta all’uso, allorquando non vi sia modalità più efficace ed efficiente di destabilizzare le strutture dell’odiato capitalismo secolarizzante.

  1. Il Presente

I radicalisti islamici sono infatti i primi a sentirsi aggrediti e questo è un punto indiscutibilmente a nostro favore. Essi non tollerano la spinta laicizzante di un mondo capitalista basato su rapporti a carattere venale. Gli uomini del sacro inseguono una dimensione comunitaria, dove l’identificazione nel noi collettivo è il fine cui sacrificare qualsiasi forma di individualismo. Sull’altare della gnosi rivoluzionaria ogni umana debolezza va immolata. Eppure il mondo di oggi non è quello che vogliono loro. Quasi in ogni paese del mondo è possibile trovare una bottiglia di Coca-Cola, emblema autentico del capitalismo moderno. I guerriglieri dell’ISIS stanno cercando di riscattarsi dall’inferno che percepiscono attorno a loro, la cui creazione, se ne vada , è nostra opera. Le loro azioni sembrano quindi essere piuttosto il colpo di coda dell’animale morente, l’impeto omicida di chi alla fine della propria fallimentare esistenza di combattente cerca di trarre con se quanti più può fra quelli che pensa lo abbiano ucciso. Vogliamo essere chiari: in questa realtà presente è molto più grande la paura e l’odio che noi suscitiamo in loro che non il contrario. Il segno che quindi dobbiamo dare, è quello per cui questo mondo non possa, per quanto sangue sia sparso, da loro in alcun modo essere cambiato. Oltre però ad avere la realtà che combatte per noi, possiamo cercare di minimizzare il costo in termini di vite umane.

     6. Le misure di sicurezza

Una rondine o due non fanno primavera. La Francia soffre del problema di una vastissima comunità islamica di terza generazione, fra le fila della quale esiste una certa probabilità per cui qualche elemento in una particolare situazione di anomia, che Quintan Wictorowicz ha recentemente denominato di “apertura cognitiva” verso l’adesione a forme di lotta estrema, più che altrove possa andare incontro a fenomeni di radicalizzazione. In generale, tuttavia, i nostri sistemi di intelligence funzionano bene e quasi sempre le cellule terroristiche vengono fermate ancor prima di mettere in pratica i propri propositi. Nessuno però deve essere portato a credere che le misure di sicurezza possano renderci un mondo privo di minacce. Allo stesso modo la scienza medica cura la maggior parte dei mali, ma non arriverà mai a poter guarire tutti. Comprendiamo quanto possa essere sconfortante scoprire di non essere degli dei immortali e anche chi scrive vorrebbe ogni mattina svegliarsi e apprendere di saper volare, evitando così il traffico di Viale . Purtroppo l’umanità convive con condizioni di intrinseca limitatezza. Ciononostante di qui a ritenere che i nostri Stati possano cadere vittima degli attentati il passo è ancora lungo ed affermare di non sentirsi protetti è a dir poco uno sproposito. Un argomento però abbiamo ancora per le nostre apprensive madri italiane, che ardentemente desideriamo rassicurare, affermando che i loro pargoli, più o meno giovani, possano beneficiare di servizi segreti temprati dagli anni del terrorismo brigatista. Forse talvolta la memoria è carente, ma ci si deve ricordare che in quegli anni un certo Moro, l’equivalente istituzionale dell’attuale Renzi, fu rapito, segregato ed infine ucciso. Qualcuno vorrebbe forse dire che per far sparire una delle più alte cariche dello Stato sia sufficiente la stessa abilità (codarda) di entrare armati di mitragliatore in un teatro? Eppure le Brigate Rosse sono state sconfitte e lo sono state benché fossero molto più concretamente “fra noi” di quanto non vogliano far credere di essere certi barbuti beduini. Costoro sono altrove, sicché prima ancora che in Patria occorre agire oltre i nostri confini.

     7. La Politica Estera

Veniamo quindi al vero campo minato, al problema dei problemi. In molti oggi dicono che entro certi limiti siamo corresponsabili della nascita del califfato. Senza voler arrivare a posizioni così estreme va però detto che forse abbiamo peccato di troppa leggerezza. In primis, non abbiamo tempestivamente voluto capire che il mondo stesse cambiando e che a partire dagli Anni Novanta del secolo scorso qualcuno avesse cominciato a giocare una partita che non seguiva le nostre regole. Abbiamo poi celebrato una scuola del realismo nelle relazioni internazionali, la quale, in molti ci odieranno nell’udire ciò, di realistico ben poco aveva oltre il nome. Occorre infatti discernere fra due realismi. Ve ne è uno che chiameremmo, in ragione di una metafora ormai molto nota, il realismo del biliardo, perché suole paragonare le unità politiche a palle che cozzano allo stesso modo l’una contro l’altra indipendentemente dal loro colore. Chi avesse fino a questo punto seguitato nella lettura dei ragionamenti esposti sopra, potrebbe agevolmente capire che questa impostazione, efficace nel descrivere i rapporti di forza in un concerto di potenze omogenee, ben poco abbia da dire sui conflitti del mondo di oggi. Occorre invece tornare un poco più indietro al realismo di un osservatore della realtà un poco più accorto, che rispondeva al nome di Niccolò Machiavelli, il quale volle insegnarci a condurre da noi stessi le nostre guerre e a non rendere potenti (leggasi armare) i vicini minori: non sia mai che un giorno vogliano muovere guerra ai loro benefattori! La politica mediterranea si è dimostrata troppo benevola nel largire supporto ad improvvisati amici della democrazia, tanto che oggi in una situazione di estrema instabilità politica è difficile capire chi stia combattendo contro di chi e soprattutto dalla parte di chi. La nostra priorità deve dunque essere quella di rimettere il bacino del Mare Nostrum in sicurezza, anche perché chi non possegga come l’ISIS un’organizzazione stabile e consolidata, nel disordine si annida più facilmente. Anche se più dispendioso, si mostra infine opportuno unirsi alla Russia in un’azione diretta sul territorio, abbandonando i sogni di condurre le proprie battaglie (il termine “missioni di pace” sta per fortuna tramontando insieme a tutto l’ipocrita dizionario del politicamente corretto) in una cabina da videogioco. Bombardare poco più che alla cieca è tattica scarsamente efficace contro un nemico che si può eliminare soltanto attraverso il controllo stretto del territorio ove egli si muove abilmente. Non possiamo inoltre mascherare un certo senso di vergogna per il grado di responsabilità nelle vicende di quella che secondo le “schiere dei lietopensanti”, come amava chiamarle Sartori, sarebbe dovuta essere la primavera araba, ma che si è poi rivelata essere il rigido inverno di gelidi rancori antichi quanto Saladino. Dobbiamo tuttavia essere confortati nella scelta di ingaggiare uno scontro frontale con i nostri oppositori dal possedere risorse militari, diplomatiche, strategiche, economiche e logistiche infinitamente superiori alla loro forza. L’unica difficoltà consiste nel trovare il metodo di combattere una nuova guerra, che proprio per la sua asimmetria rischia di essere oltremodo logorante per i nostri schieramenti. Questo è tuttavia argomento per il quale possiamo fare affidamento su chi quotidianamente si dedica al miglioramento della strategia in campo bellico. Per parte nostra ci contentiamo di affermare che dalla Lepanto dei nostri giorni saremo noi ad uscirne vincitori e che si tratta dunque soltanto di ridurre al minimo il tempo e le vite umane necessarie a far calare il sipario della storia sul fondamentalismo islamico.

Samuele Crosetti

Con amicizia letto da Arnaldo Mitola

Per approfondire:

  • E.H. Carr, The twenty years crisis, 1919 – 1939. An introduction to the study of international relations, Macmillan, Londra 1939
  • E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Einaudi, Torino 2008
  • K.M. Eisenhardt, Agency and institutional theory explanations: the case of retail sales compensation, articolo apparso su «Academy of Management Journal», n. Settembre 1988
  • M. Fioravanti, Costituzione, Il Mulino, Bologna 1999
  • S.P. Huntigton, Ordine politico e cambiamento sociale, Rubbettino, Catanzaro 2012. Questo sul concetto di istituzione. Per un’analisi più specificatamente rivolta al tema del radicalismo islamico, si confronti invece Id., Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2000
  • Ibn Khaldun, Discours sur l’histoire universelle, Sindbad, Parigi 1978 – Manca una traduzione italiana della sua opera, ma l’edizione francese è sicuramente fra le più curate.
  • L.Pellicani, La genesi del capitalismo e le origini della modernità, Rubbettino, Catanzaro 2013
  • M.Molinari, Il califfato del terrore, Rizzoli, Milano 2015
  • H.J. Morgenthau, Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Il Mulino, Bologna 1997
  • A.Orsini, Anatomia delle brigate Rosse, Rubbettino, Catanzaro 2010
  • J. Ortega y Gasset, L’uomo e la gente, Armando, Roma 2005
  • A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Il Mulino, Bologna 1997
  • G. Pecora, La libertà nei moderni, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma 2011
  • D. Quirico, Il grande califfato, Neri Pozza, Vicenza 2015
  • K.N. Waltz, Realist Thought and Neorealist Theory, articolo apparso su «Journal of International Affaires», n. 1/1990
  • Q. Wiktorowicz, Radical Islam Rising, muslim extremism in the West, Rowman & Littlefield, Oxford 2005
  • A. Toynbee, A Study on History, opera in XII volumi. Si consiglia in particolare il Vol. VIII, Heroic Ages; Contacts between Civilizations in Space, Oxford University Press, Oxford 1954

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