Le sale blu dei Nuovi Uffizi – La firma di Chardin

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Le sale blu degli Uffizi sono espressione del rinnovamento che da anni interessa il complesso museale vasariano. Si è trattato di allestire dieci nuovi ambienti, entro un corpo di fabbrica adiacente ma finora estraneo alla Galleria. Sale blu: intuitivamente, le opere si dispongono su pareti imbiancate a tinta unita. La scelta museografica di posizionare pezzi d’arte in stacco cromatico fra l’oggetto e l’ambiente circostante, è un espediente applicato già negli anni Cinquanta del secolo scorso da architetti come Carlo Scarpa ed altri (Giovanni Michelucci, Ignazio Gardella, gruppo BBPR, Franco Albini…). Il fine è consentire al pubblico una fruizione dell’opera in sé, ove il rimirante si concentri su aspetti storici, stilistici ed estetici di essa senza distrazioni ambientali. Esempi opposti a questo sono la quadreria o la casa-museo, dove opere affastellate su più file in verticale o scenograficamente ricoprono la parete, ma dove si ammirano anche soffitti affrescati, mobilia, tappezzerie ed altro, appartenenti a generi e periodi storici molto diversi. A Firenze, due saggi siano la Galleria Palatina di Palazzo Pitti (quadreria) ed il Museo Horne (casa-museo). Lo scopo di queste operazioni risulta quindi estetico, o estetizzante, e contestuale; quello invece di presentare un’opera separata da qualunque ambito, a volte anche in via eccessiva, è insieme estetico e scientifico.

Le sale blu sono dedicate ai pittori stranieri tra Cinque e Settecento, fra i quali Goya, Rembrandt, Velazquez, Van Dyck, Dou; l’allestimento scelto si colloca in linea con quello realizzato in Galleria dai citati Scarpa, Michelucci e Gardella nel 1956. La forte impronta dell’insieme è conferita dalla pittura secentesca fiamminga ed olandese, anche nelle plurime influenze che ebbe in Europa. Date tali premesse colpisce, potremmo dire per apparizione e soggetto, il silenzio di Chardin.

All’interno del nuovo settore, si trova una sala dedicata alla pittura francese del diciottesimo secolo; al centro di essa due dipinti in pendant, di dimensioni rimarchevoli: la Bambina col volano (1737) e Il castello di carte (1737). L’alta qualità lascerebbe credere che si tratti di Jean Siméon Chardin (1699-1779), per tutta la vita parigino. Sono, però, una coppia di ottime repliche della sua bottega, laddove gli originali si trovano rispettivamente divisi tra una collezione privata e la National Gallery di Washington.

I soggetti in esame sono fra i più ricorrenti del pittore: l’infanzia, ritratta nei momenti di svago caratteristici dell’età. Nella prima tela, una bimba in abiti da signorina; capelli incipriati, cuffietta a fiori, racchetta ed un volano piumato in mano. Nella seconda, un fanciullo pone in verticale delle carte da gioco su di un tavolo verde; lo sguardo rivolto alla sua piccola sfida, con un abbozzo di sorriso.

Chardin, il pittore del silenzio è stato non a caso il titolo di una mostra memorabile tenutasi nel 2010/2011 prima a Ferrara poi a Madrid. Pierre Rosenberg, curatore dell’esposizione, ha così definito questo artista; egli restituisce uno sguardo non convenzionale per il suo Settecento, improntato alla genuinità dello studio naturalistico ed all’umiltà riservata del soggetto umano. Il destinatario della pittura di Chardin guarda a situazioni che, per così dire, non lo riguardano; la fragranza della natura morta o la semplicità della scena di genere (occupazioni di madri e bambini, fanciulli, domestici) tacciono intatti. Raramente i protagonisti scelti interloquiscono con il pubblico: non sguardi diretti, né interruzione del lavoro o movimento. Persino nell’opera che ventinovenne gli valse l’ammissione all’Académie parigina, Il buffet 1728, il cane (un setter irlandese?) guarda da sottinsù il tripudio colorato di pesche in natura morta, dandoci le spalle e soffuso di penombra. La composizione è quindi chiusa e normalizzata da questo intruso vivente che esclude con la sua collocazione qualsiasi altro partecipante. A noi così è dato quasi il privilegio di contemplare, senza temere un’interrogazione turbativa della quiete.

Ciò che rende Chardin tradizionale e nuovo sono i suoi connotati di base. Chardin, unico artista francese fra i grandi della sua generazione, non compie il viaggio di formazione in Italia; ha un percorso di studi accademici non pienamente completo; non disegna con abilità né pratica di norma il ritratto (con eccezioni); conseguentemente non dipinge scene di storia, cosa che, secondo la gerarchia dei generi (sovvertita solo dalla Rivoluzione dell’ ’89), lo relega alle più basse categorie della pittura di natura, genere e paesaggio.

Lo diciamo dunque tradizionale, in quanto par esserci in lui un’aspirazione a raffigurare il Vero assimilabile alle ricerche di varie epoche verso il proprio passato. In ciò un’analogia possibile, ancorché da verificare, può riscontrarsi nel primo Quattrocento fiorentino fino al maturo Rinascimento italiano del secolo successivo; aspirazione al Vero che Vasari vedrà realizzata appieno nel suo concetto di Maniera moderna, ossia in Leonardo, Raffaello, Giorgione, Michelangelo. Denis Diderot, buon ammiratore di Chardin, sente il pittore riferire che “bisogna addestrare l’occhio a guardare la natura”; se attribuissimo l’affermazione ai Maestri della Maniera vasariana, sarebbe credibile. L’artista sente la necessità di tornare al dato naturale dopo le esperienze di classicismo “apollineo” della tradizione francese secentesca, da Nicolas Poussin a Claudio Lorenese; un po’come nel Rinascimento, a partire dalla prospettiva geometrica brunelleschiana, l’ambiente culturale italiano sente di dover indirizzare verso una più stretta aderenza alla componente sensibile-misurabile la propria attenzione, avvertendo un distacco rispetto alle maniere precedenti. Coronamento di questa consapevolezza progressiva, al di là dell’interpretazione che di volta in volta applichi, è ancora Vasari; egli divide il tempo della sua storia dell’Arte secondo tre Maniere, corrispondenti a tre cicli temporali-stilistici di tensione lineare verso l’apice di naturalezza e bellezza che identifica in Michelangelo.

La natura morta e la scena di genere si pongono in relazione di fatto con la pittura fiamminga ed olandese. Come accennato, il Nostro non possiede i modelli acquisibili da un viaggio in Italia. Tuttavia l’ambiente accademico e le collezioni parigine offrono all’artista in formazione una buona conoscenza dell’Antico, ma anche gli esempi più vicini ed apprezzatissimi dei Paesi Bassi. Colà il ritratto ed i succitati generi hanno un valore topico, unitamente agli studi coloristici e luministici. Basti pensare alla pennellata di Rembrandt van Rijn, al ritratto sardonico-realistico di Franz Hals, alla scenetta di inservienti da Jan Vermeer a Gerrit Dou. Le sale blu degli Uffizi pullulano di questi autori, di tutte queste esperienze. Si può considerare un caso, dato dalla coincidenza tra i pittori neerlandesi e Chardin entro la categoria Pittura straniera di XVI-XVIII secolo, che essi qui convivano. Rileggendo la storia e l’aneddotica, sembra però non esserlo. Il biografo Jean Baptiste Haillet de Couronne scrive di come Monsieur de Largilliere, pittore di origine e formazione fiamminga, si recasse in Accademia; di come Chardin per l’occasione avesse sistemato due quadri, tra cui Il Buffet, entro una sala dove si trovava a passare Largilliere; e di come, vedendoli, questi si fermasse esclamando “davvero belli, sono certamente di un buon pittore fiammingo”. Il disegnatore ed altro biografo Charles Nicolas Cochin abbassa di un poco il tono celebrativo, ma la sostanza dell’accaduto rimane.

Se i soggetti di natura e genere sono inusitati nella Francia di XVIII secolo, sono comunque di più ampia tradizione. Ciò che con Chardin avviene, attraverso di essi, tuttavia assume profili inaspettati.

Nel Settecento francesce si avverte uno stacco già con la morte di Luigi XIV (1715), principale fautore della propria cultura classicista. Antoine Watteau, fra i più grandi a cavallo dei due secoli, nel 1720 dipinge L’insegna di Gersaint: la galleria di quadri del mercante Gersaint, inservienti che ne rimuovono alcuni, connoisseurs che ne ammirano altri. Di lato, garzoni che depongono nel baule un ritratto del defunto Re Sole, quasi a insegna del suo tramonto.

E tuttavia, mentre in Watteau il processo sembra fisiologico, Chardin introduce, qui veniamo al secondo punto, l’innovazione. Cochin del Maestro cita: “Bisogna che dimentichi tutto ciò che ho visto e anche il modo in cui questi soggetti sono stati trattati da altri”. Chardin sa di non poter eccellere, per indole e formazione, nel disegno né nei generi più illustri della gerarchia accademica. Inoltre a Parigi la concorrenza in questo campo è molto competitiva. Ecco allora che questi indubbi svantaggi, uomo di estrazione non intellettuale e prammatica, sono da lui capovolti. Anzitutto, con un esplicito spirito di rottura rispetto all’ambiente precedente e contemporaneo; altra cosa è la polemica in ogni caso, categoria otto-novecentesca in tutti i modi non ascrivibile al Nostro. Per attuare tale programma, egli si indirizza con modernissima attitudine alla resa coloristica. Attraverso il colore egli si interessa alla forma complessiva del soggetto, definito da una pennellata sicura ma meticolosa, non dal disegno. La sua pittura rende così assai sul piccolo e medio formato, dove sia meglio possibile rifinire, fondere, velare e toccheggiare il colore. Nell’evoluzione dell’artista, il colore tenderà di massima ad omogeneizzarsi sui toni dorati, ma non verrà meno il lavoro di pennello. Sulla tela Chardin imprime ciò che l’occhio può pacificamente fruire; non messaggi o simboli, né architetture che attraggano il movimento dello sguardo. Dalle sue opere, apprezzate già all’epoca salvo difficoltà iniziali, verranno tratte molte riproduzioni a stampa; altro segno dei tempi che da lui trova sviluppo sin oggi. Le incisioni tuttavia sono dagli editori corredate, per motivi commerciali e di gusto, da motti morali che contraddicono il suo spirito tacito e contemplativo.

Altro elemento di distinzione è il concetto funzionale del colore: “ci si serve dei colori, ma si dipinge con il sentimento”. In pieno illuminismo tale affermazione non può leggersi come un’adesione pre-romantica, né alle successive poetiche del pittoresco o del sublime. Il sentimento di Chardin ha valore formale, ove cioè il prodotto finito presenti la natura e non l’artificio. La delicatezza ricercata di questo sentimento farà parlare Diderot, riguardo Chardin, di vera e propria “magia”.

L’ultima fase del pittore, gli anni Settanta, lo vedrà sperimentare il pastello. Ammalato, gli sarà vietato il colore ad olio, le esalazioni chimiche del quale non giovavano. Sarà questo il periodo dove produrrà i suoi ritratti più famosi, dopo una vita passata principalmente a studiare natura e scena di genere. Nella Parigi della prima metà del secolo, una pittrice veneziana aveva già lasciato esempi e lodi per il ritratto a pastello: Rosalba Carriera. L’anziano Chardin tuttavia anche qui segue la sua strada. Anziché l’effigie aristocratica e lepida, più o meno ufficiale o conturbante, il Nostro al solito sceglie l’infanzia e la quiete. Ma lo lasceremo guardando alla sua arte negli occhi: tre autoritratti dove, con buffi copricapi ed i suoi inconfondibili occhiali tondi, egli ci fissa beffardo nella rotondità del proprio sentimento.

Ferruccio Botto

Con amicizia letto da Federica Avagnano

Bibliografia

Pierre Rosenberg (a cura di), Chardin, il pittore del silenzio, Ferrara, Ferrara Arte S.P.A, 2010;

Denis Diderot, Salons, a cura di J. Seznec e J. Adhémar, vol II, 1765, Oxford, 1960;

C.N. Cochin, Essai sur la vie de M. Chardin, 1780, in C. de Beaurepaire, Précis analytique des travaux de l’Académie des Sciences, Belles-Lettres et Arts de Rouen, 1875-76, vol. LXXVIII, Fécamp, 1988;

Haillet de Couronne 1780 (ed. 1854), J.B. Haillet de Couronne, Eloge de M. Chardin sur les mémoires fournis par M. Cochin, 1780;

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, I ed.1550;

Elenco opere citate

Jean Siméon Chardin, Bambina che gioca col volano o La bambina col volano, 1737 , Olio su tela, cm 81 x 65. Collezione privata. Riproduzione di bottega, Firenze, Galleria degli Uffizi;

Jean Siméon Chardin, Il castello di carte, c.1737, Olio su tela, cm 82×66, Washington, National Gallery of Art, Andrew W. Mellon Collection, 1937. Riproduzione di bottega, Firenze, Galleria degli Uffizi;

Jean Siméon Chardin, Il buffet, 1728, Olio su tela, cm 194×129, Parigi, Musée du Louvre;

Antoine Watteau, L’insegna di Gersaint, 1720, Olio su tela, cm 163×308, Berlino, Schloss Charlottenburg-Stiftung, Preussische Schloesser und Gaerten Berlin-Brandenburg;

Jean Siméon Chardin, Autoritratto o Ritratto di Chardin con gli occhiali, 1771, Pastello su carta, mm 460×375, Parigi, Musée du Louvre, département des Arts graphiques;

Jean Siméon Chardin, Autoritratto o Ritratto di Chardin con la visiera, 1775, Pastello su carta, mm 460×380, Parigi, Musée du Louvre, département des Arts graphiques;

Jean Siméon Chardin, Autoritratto o Ritratto di Chardin al cavalletto, c.1779, Pastello su carta, mm 405×325, Parigi, Musée du Louvre, département des Arts graphiques;

Immagine

Bambina col volano, ultima consultazione 05/10/2015 ore 11.56

http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/images/upload/large/22/1286896300703_109m.jpg

Jean Siméon Chardin: Bambina che gioca col volano o La bambina col volano, 1737, Olio su tela, cm 81 x 65. Collezione privata © The Bridgeman Art Library, foto Peter Willi

 

 

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