La chiesa di Ognissanti si affaccia sull’omonima piazza in riva all’Arno. Nel Duecento, l’ordine pauperistico di origine lombarda degli Umiliati, la cui regola fu approvata da Onorio III, si stabilì a Firenze in una delle sue zone più povere (come cambiano le cose nei secoli! Adesso è un’area di raffinata eleganza); fece poi edificare questa chiesa e il convento vicino alle rive del fiume Arno, dove costruì anche la pescaia, ancora oggi presente, e un porticciolo, proprio sotto l’odierna piazza. Per i frati era importante la presenza di un corso d’acqua in quanto sfruttavano la forza della corrente nella manifattura della lana e per la produzione del vetro, occupazioni usuali dell’ordine.
Nel 1571, per volere di Cosimo I de’ Medici, gli Umiliati dovettero lasciare il posto all’ordine dei Francescani, provenienti dal convento di San Salvatore al Monte e della chiesa originale rimane oggi solo il campanile duecentesco; il resto subì notevoli modifiche a partire dal ‘500, con l’influsso della Controriforma, che determinò importanti cambiamenti anche nella struttura degli edifici ecclesiastici. Nel corso del 1800, infine, il convento venne dismesso e diventò sede dei carabinieri; della struttura originale rimangono solo il chiostro e il refettorio.
La facciata, in stile barocco fiorentino, risale al XVII secolo ed è stretta e lunga, in quanto frutto di un adattamento allo spazio a disposizione. Il materiale originale era la pietra serena, tipica fiorentina, ma, nel corso del ‘900, in seguito alla ricostruzione della facciata, è stato utilizzato il travertino di Rapolano, più resistente. La sostituzione di strutture portanti in pietra serena è molto comune a Firenze: si pensi alle colonne dell’Ospedale degli Innocenti di Brunelleschi, primo architetto ad usare questo materiale. La lunetta in terracotta invetriata bianca e blu, invece, è originale cinquecentesca della bottega dei Buglioni e rappresenta Maria incoronata e i Santi. Sono presenti due stemmi medicei in onore di una ricca famiglia di ebrei convertiti, che acquisirono il diritto di portare l’effige dalla famiglia Medici.
L’interno presenta uno stile in prevalenza barocco. Il pavimento non è dell’epoca, ma in cotto: le lapidi originarie furono irrimediabilmente danneggiate dall’alluvione del ‘66. Nella parte superiore delle pareti notiamo alcuni tondi con Santi francescani; il soffitto è settecentesco e presenta una quadratura, cioè un’incorniciatura architettonica dipinta con effetto illusionistico, e, al centro di essa, è raffigurata la gloria di un santo riformatore dell’ordine francescano, San Pasquale.
Il secondo altare a destra della navata centrale è quattrocentesco e fu finanziato dai Vespucci, come anche la cappella (la famiglia ne possedeva ben tre nella chiesa). L’affresco è opera di Domenico del Ghirlandaio (1472), chiamato così perché il padre intrecciava ghirlande per le nobili fiorentine; la lunetta, nella parte superiore, raffigura la Madonna della Misericordia, mater familias con un tipico atteggiamento di protezione verso i membri della famiglia Vespucci, rappresentati con tratti realistici e ben riconoscibili. E’ interessante notare la figura del giovane: si tratta, forse, di Amerigo Vespucci ed è uno dei pochi ritratti che di lui possediamo. La ricerca di realismo del Ghirlandaio è ben ravvisabile nella prospettiva dal basso della gonna della Madonna, i cui orli non sono pari, in quanto lo sguardo dello spettatore si trova sotto di essa. Questo e altri dettagli, come i piedi, mostrano l’importante influenza della pittura fiamminga nell’opera del grande maestro. La parte inferiore presenta una pietà, soggetto tipicamente nordico del X secolo (non presente nel Vangelo), diffusosi per drammatizzare e coinvolgere emotivamente lo spettatore: è una sorta di riappropriazione da parte della Vergine del corpo del Figlio, come nell’iconografia, per questo parallela, della natività. Davanti a questo affresco, sulla parete opposta, se ne trova un altro, di poco successivo, dipinto dal figlio, Rodolfo del Ghirlandaio.
Poco oltre, vediamo due affreschi, realizzati nel 1480 circa: quello sul muro destro è di Botticelli e raffigura Sant’Agostino; l’altro, a sinistra, è un dipinto di San Girolamo realizzato da Ghirlandaio. Si tratta di due opere che un tempo erano addossate al tramezzo, che fu smantellato nel ‘500 in seguito all’intervento determinato dalla Controriforma (separava i fedeli dal tabernacolo, dalla presenza della divinità, come avviene tutt’oggi nella tradizione ortodossa), e il loro scopo era quello di indurre alla riflessione i chierici che vi passavano davanti. Gli affreschi si sono salvati dalla distruizione del tramezzo perché staccati e poi messi lungo la navata, insieme con il pezzo di muro in cui erano incassati. Sant’Agostino è ritratto con un testo aperto alle proprie spalle: è un manuale di geometria, in cui l’unica frase con un significato (le altri sono solo scarabocchi) recita: “Dov’è Fra Martino? È scappato. E dov’è andato? È fuor dalla Porta al Prato”; Botticelli ironizza sul frate del convento, noto per le sue continue scappatelle (e poi il Vasari lo definisce “cupo”!). L’ordine degli Umiliati abbracciò la norma “Ora et labora”: questo ha il proprio riscontro nel fatto che Sant’Agostino è raffigurato intento allo studio, quando è colto dall’illuminazione. Ghirlandaio descrive lo studio, sempre umanista, di San Girolamo in un modo davvero ricco di particolari; Botticelli opera in modo che l’attenzione si concentri sul volto del santo, mentre l’altro artista distrae l’osservatore, catturato dalla profusione di dettagli.
Le altre opere presenti sono di artisti manieristi e barocchi, che riesentono dell’influsso della controriforma: le immagini devono avvicinare il fedele e parlare al suo cuore (non c’è più l’approccio fortemente razionale del Rinascimento). La forma, quindi, si spinge verso un maggiore virtuosismo e teatralità per persuadere attraverso l’immagine. L’altare maggiore è del ‘600-‘700, composto di pietre dure. Sopra di esso si apre la cupoletta, affrescata nel ‘600 da Giovanni dia San Giovanni.
Il transetto di destra contiene una cappella (la prima a destra), dove nel 1510 fu sepolto Botticelli: un distico sul pavimento, nell’angolo in basso a sinistra, ricorda che un tempo vi si trovava la tomba del grande pittore, ora dispersa. Graziosa l’immagine, all’ingresso della cappella, di alcune decine di bigliettini appoggiati, che, differenti per lingua e intonazione, sono offerti in segno di ringraziamento e ammirazione verso Botticelli. Nessun foglietto, invece, per il santo cui è dedicata la cappella, Pietro d’Alcantara. Lo ricordiamo noi.
Nel 2010, in seguito ad un importante restauro, è stata confermata l’attribuzione del Crocifisso nella Cappella dei Caduti alla produzione matura di Giotto (1315 c.). Esso si trovava sull’iconostasi, struttura che separava il presbiterio dalla navata, insieme alla Maestà di Ognissanti, ora al Museo degli Uffizi, e alla Dormitio Virginis, alla Gemäldegalerie di Berlino. Il Crocifisso, di cui è andata perduta la parte inferiore e che perciò appare sproporzionata, è in legno e presenta una struttura polilobata. Il Cristo non è più quelllo triumphans della tradizione bizantina, ma quello patiens: i Francescani desideravano mostrare un Cristo più umano, terreno. In realtà, la raffigurazione della crocifissione contiene entrambi gli elementi, umano e divino, rispettivamente nella sofferenza del Cristo e nei colori blu e oro, simboli di trascendenza. Il corpo è reso in modo naturalistico; i colori sono vivi: blu oltremare, ricavato dal lapislazzulo e quindi molto costoso, segno che gli Umiliati erano un ordine piuttosto ricco, e oro, che nell’aureola ha alcune parti in vetro. Questo particolare è un riferimento all’attività vetraia svolta dagli Umiliati.
Uscendo dalla chiesa, è possibile entrare nel convento attraversando una grande porta di legno. La struttura presenta un chiostro grande (quello piccolo fu assorbito nel resto della struttura nell’800), cinquecentesco, ma con alcuni pilastri ottagoni del ‘300. Gli affreschi risalgono al 600. Nel refettorio, dove i frati mangiavano insieme e uno, a turno, digiunava e leggeva ad alta voce le Sacre Scritture, nutrimento per l’anima, è conservato il cenacolo del Ghirlandaio (1480).
Sulla parete destra della sala è possibile vedere la sinopia, preparatoria all’affresco, che era una tecnica in uso fino al ‘400 e poi sostituita da altre, come quella del cartone e dello spolvero. Confrontando questa immagine “preparatoria” con l’affresco definitivo, è possibile evidenziare le differenze, come il volto del Cristo o la posizione del braccio di Pietro.
La parte superiore dell’affresco, incentrato sulla rappresentazione dell’ultima cena, presenta uno sfondo a carattere fortemente simbolico: uccelli rapaci e le loro prede (il bene e il male), un pavone (immortalità), i limoni (pureza), l’arancio (paradiso terrestre) la vegetazione composta da cipressi (morte), la palma del martirio.
La tavola è riccamente decorata con ippogrifi e imbandita con bevande e cibi, tra cui le ciliegie, segno del sangue e della passione. Notiamo una grande attenzione ai dettagli, sempre di derivazione fiamminga, ravvisabile, ad esempio, nella trasparenza del vetro di bottiglie e bicchieri. La forma del tavolo è a ferro di cavallo e, a sinistra, notiamo una grande partecipazione, mossa dalle parole del Cristo, che ha appena annunciato il futuro tradimento da parte di uno degli apostoli. Lo stesso modello è usato successivamente da Leonardo. La differenza più evidente fra i due è la presenza di Giuda da una parte o dall’altra del tavolo. La figura è riconoscibile dal sacco di monete che stringe in mano: Leonardo la mette dallo stesso lato degli altri Apostoli, secondo il pensiero di San Giovanni Crisostomo. Questo teologo, infatti, riteneva che, all’interno di una comunità, il peccatore non dovesse essere escluso.
Federica Avagnano e Arnaldo Mitola
Un ringraziamento a Patrizia D’Orlando
Con amicizia letto da Ferruccio Botto
Riferimenti
Patrizia D’Orlando, Visita cenacolo e chiesa di Ognissanti, Firenze, 28 febbraio 2015