Irvin D. Yalom scrive: “Un tempo siamo stati tanto vicini nella vita che nulla poteva più costituire un ostacolo per il nostro sodalizio di amicizia e fratellanza: ci separava soltanto un piccolo ponticello. Proprio mentre stavi per imboccarlo io ti ho chiesto ‘Vuoi venire a me attraverso il ponticello?’ Te ne è immediatamente passata la voglia.” Perché? Perché altrimenti sarebbe sembrato si stesse sottomettendo all’altro.
È corretto, dunque, come suggeriva già Nietzsche, interpretare ogni nostra relazione come rapporto di potenza? Ovvero come un rapporto in cui tentiamo di imporre la nostra forza sull’interlocutore o, al contrario, siamo schiacciati dalla sua? La questione è facilmente risolvibile per quanto riguarda le relazioni più superficiali: con colleghi e conoscenti instauriamo rapporti di forza evidenti e poco duraturi, destinati al semplice soddisfacimento di un bisogno momentaneo. Il problema si pone quando andiamo a considerare altri tipi di relazione, quelli con i nostri intimi: i genitori, gli amici, gli amanti. In questo caso, ci repelle immediatamente l’idea di poter ingabbiare il legame che abbiamo con loro in un gioco di forza: è blasfemo affermare che tentiamo costantemente di prevaricare sulle persone che amiamo e che, dall’altra parte, esse cercano di fare lo stesso con noi. Si intenda bene: sto parlando sempre del lato del più forte ma questo non significa che il debole non scelga, più o meno consciamente, per incapacità o per vigliaccheria, di essere complice dell’altra parte. Persino decidere di essere il debole della relazione comporta l’inserimento all’interno di un gioco di potenza, magari di un braccio di ferro che pensiamo di non poter vincere.
Ormai molto tempo fa, quando mia madre notò che il mio atteggiamento non sarebbe stato produttivo per la nuova relazione che stavo cercando di instaurare, le risposi candidamente: “Ma io non voglio essere felice: io voglio vincere!” Non sono stata, forse, sempre mossa dalla volontà di dominare l’altro, di imporre la mia potenza su chiunque incontrassi? E’ semplicistico generalizzare, ma credo che tutti agiamo in base ai medesimi istinti di fondo: siamo umani, no? (Anzi, sarebbe più corretto chiedere: siamo animali, no?) E, lasciatemelo dire, se in questo momento state scuotendo la testa ripetendo che per voi il discorso non è valido, allora o siete la parte estremamente debole delle vostre relazioni o siete la parte non consapevolmente più forte e, proprio per questa ignoranza, più pericolosa.
Prendiamo qualche esempio di rapporti asimmetrici, in cui una delle parti schiaccia con la propria potenza l’altro. Il celeberrimo Catullo è una delle più lampanti dimostrazioni della letteratura latina: il poeta potrà anche insultare Lesbia in metà dei propri componimenti e attribuirle epiteti che ritengo eufemisticamente poco eleganti, ma è oppresso da lei. Dimentichiamo per un istante quanto pesi la componente di finzione letteraria messa in atto da Catullo: ciò che egli mostra è la raffigurazione perfetta del rapporto asimmetrico, in cui Lesbia ha tutto il potere, mentre l’amante non riesce a liberarsi di lei, ma può solo prendersi una misera rivincita inveendole contro nei propri versi.
Tutta la letteratura provenzale del Medio Evo è basata sul rapporto di forza. Il servitium amoris che il cavaliere, sottomesso, offre alla dama amata, che lo comanda, non è altro se non la palese dimostrazione di un legame basato completamente sulla forza, in un momento storico in cui si sente il bisogno di una sublimazione del problematico rapporto di potere tra feudatario e vassallo, in ambito politico. Così la produzione letteraria, non solo la poesia provenzale, ma anche il romanzo cavalleresco, divengono specchio di una realtà basata sull’imposizione della potenza. Da notare che questo tipo di amore non è mai realizzabile: il divario, in primo luogo sociale, tra i due è troppo ampio e non può venir meno; inoltre il cavaliere si sottomette volontariamente, si pone coscientemente nella parte del più debole, nella convinzione che l’amore e il sistema di valori ad esso legato lo nobiliteranno. Con Jaufré Rudel si arriva addirittura alla geniale idea dell’amor de lonh (l’amore di lontano), in cui è la stessa non presenza fisica della donna ad impedire il concretizzarsi dell’amore. E’ grazie a questo concetto che Dante costruirà un’intera opera intorno alla morte dell’amata, che è il centro focale anche del Canzoniere di Petrarca.
Gli esempi possono essere infiniti e si concentrano specialmente sul rapporto di forza tra genitori e figli e tra due amanti. Basti pensare al Dante annichilito da Beatrice nella Vita nuova o alla Lettera al padre di Kafka, a Leopardi già nel Diario del primo amore, in cui addirittura la cugina amata è sempre chiamata “la Signora”. Giochi di forza non risolti sono quelli che rendono grandiosi e tragici amori come quello di Catherine e Heathcliff in Cime tempestose o dei due protagonisti di Colpo di grazia di Marguerite Yourcenar.
Ne La coscienza di Zeno, possiamo addirittura ritrovare tutte e tre le relazioni più intime. In primo luogo quella del protagonista col padre, che un istante prima di morire lo schiaffeggia: l’episodio segna il culmine della loro relazione. Zeno stesso ricerca un rapporto fortemente asimmetrico in ogni donna: vuole essere la parte debole, specialmente con Ada. Infine, il rapporto che inizialmente lo lega a Guido è basato sul forte squilibrio per cui il cognato ha tutte le caratteristiche e le qualità positive di cui Zeno sente la mancanza. Possiamo però vedere come il protagonista sia sempre consapevole della propria inettitudine e risponda ad essa con un sorriso ironico: è questo, alla fine, che lo salverà. Sceglierà di sposare Augusta e dimostrerà di saper sopravvivere molto meglio di Guido. Questi eventi, impensabili in Una vita e in Senilità, segnano un cambiamento importante nella produzione di Svevo.
In Con gli occhi chiusi gli squilibri più evidenti sono due: quello tra Pietro e il padre, su cui si riflette l’esperienza problematica dell’autore, Federigo Tozzi, con il genitore, e quello con la donna amata, Ghisola. Vorrei concentrarmi sul finale: il modo in cui il protagonista apre finalmente gli occhi, nell’immagine dura e crudele della pancia gonfia di Ghisola, quando davvero capisce chi lei sia, segna la svolta e la conclusione del loro legame. Pietro non è più in balia di lei, non è più sottomesso, non è più la parte debole.
I rapporti di forza, dunque, possono essere ribaltati e un nuovo equilibrio (o squilibrio) può essere stabilito. Prerequisito fondamentale è sicuramente la consapevolezza, di sé e dell’altro, e la volontà di ricerca di un’armonia.
In conclusione, davvero i nostri legami più intimi sono giochi di potenza, in cui vogliamo anche prevalere sull’altro? Qualche anno fa avrei risposto di no e mi sarei lanciata in un lungo e retorico sproloquio in difesa di rapporti che possono essere costruiti sulla simmetria e sull’equilibrio. Adesso mi sembra un’idea utopica.
D’altra parte, l’esercizio sconsiderato della propria forza o la volontaria abnegazione che porta all’umiliazione, considerata morbosamente come nobilitazione, sono entrambi modi di non-relazionarsi con l’altro, ma sistemi che riguardano solo il singolo individuo, che li mette in atto. Imporsi, allora, un alto ideale morale per cui tentare una mediazione e rinunciare a parte della propria potenza ogni volta che siamo in squilibrio? Non so rispondere a questa domanda. Non sono propensa a credere che l’applicazione di un principio possa davvero portare ad avere relazioni equilibrate, anche perché dimentica quasi totalmente l’altro e la sua fondamentale importanza. Non sarebbe anch’esso una dimostrazione di forza, anche se positiva? Chi cerca ossessivamente di applicare una norma o un valore, tende a non vedere, accecato dalla propria verità, le realtà delle persone con cui si relaziona.
Forse è qui che sta il punto: essere costantemente spinti dall’altro (in modo diretto o indiretto, volontario o meno), oltre che da se stessi, a cambiare la propria posizione, in un discorso dialettico potenzialmente infinito. E’ un gioco complesso, un equilibrio che non esiste, una simmetria fittizia. Può funzionare? Forse è la domanda sbagliata da porci, nel momento in cui entriamo in contatto più intimo con chiunque, da un amico a un parente, al proprio amato e amante.
Il quesito vero, secondo me, è: vale la pena tentare? E possiamo rispondere solo guardando l’altro.
Federica Avagnano
NB: Consiglio fortemente la lettura di un articolo di Bernardo Paci, “Sii libero!” – Paradossi comunicativi dell’ingiunzione e della performatività, per il collegamento evidente tra le mie riflessioni e le considerazioni fatte in merito al paradosso del “Fa’ ciò che vuoi.”
Bibliografia
Irvin D. Yalom, Le lacrime di Nietzsche, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2006
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Mondadori, Milano, 2001
Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi, BUR, Milano, 2000
Costanzo de Girolamo, La letteratura romanza medievale, Il Mulino, Bologna, 1994
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