Che significato ha una fotografia? Con che fine i fotografi mettono a fuoco guardando da un piccolo buco di forma quadrata certi oggetti o situazioni o persone? Per ricordare momenti precisi, per formare un collage del mondo? Per mostrare agli altri il proprio modo di vedere ciò che ci circonda?
La domanda principale che voglio porre, e a cui non ho intenzione di dare alcuna risposta certa, è questa: disegnare, dipingere, fotografare, descrivere il mondo che si ha intorno sono azioni di condivisione con gli altri o si svolgono per se stessi, per rispondere a domande proprie e fermare momenti precisi con riferimenti a se stessi per poterli ritrovare in un tempo lontano?
Questa domanda sorge spontanea scoprendo la storia di Vivian Maier. Nata nel 1926 a New York, Vivian ha vissuto la sua vita lavorando da tata, trasferendosi da una casa all’altra per prendersi cura di bambini di diverse famiglie. Ad ogni trasferimento portava con sé scatole, innumerevoli quantità di scatole chiuse doppiamente con lo scotch, contenenti principalmente fotografie, rullini non sviluppati, scatole di rullini con dentro oggetti improbabili, quantità immense di giornali. Vivian Maier andava sempre in giro con una macchina fotografica al collo e, portando i bambini a giro, fotografava persone per la strada, con un particolare occhio per il bizzarro, per l’assurdità di certi aspetti della condizione umana – un venditore di giornali all’edicola che si addormenta, un senzatetto che cerca di riscaldarsi, un uomo sdraiato sulla spiaggia, una donna che parla al telefono, manichini svestiti o distrutti. Le sue fotografie colgono però anche la dolcezza della vita – una finestra da cui si vede una madre col proprio figlio, una coppia che si tiene segretamente la mano per strada, due bambine che si abbracciano, una coppia di anziani addormentati sul treno. Non appena il suo occhio trovava qualcosa di interessante, bizzarro, strano, ironico o anche semplicemente ‘testimone’ di pura umanità nella realtà che la circondava, metteva a fuoco, pigiava il pulsante ed ecco, il momento era immortalato, aggiunto al collage del mondo, alla collezione di testimonianze di ciò che era per lei l’essere umano. Col tempo le persone spariscono lentamente dalle sue fotografie, appaiono sempre di più giornali con titoli tragici, giornali che parlano di violenza, di abuso, di pedofilia. Sono tutti giornali che Vivian collezionava in modo ossessivo, riempiendo le sue scatole e le sue stanze, lasciando a malapena spazio per camminare. Non si sa che storia nascondesse, ma aveva molto probabilmente vissuto un trauma. Era una donna molto introversa ma eccentrica, a volte troppo. I bambini (oggi oramai adulti) di cui era la tata la descrivono in modo anche critico, “c’era qualcosa che andava oltre l’eccentrico, era pazzia”: il terrore del contatto fisico, la mania del collezionare tutto, l’interesse per le situazioni violente – sono tutti piccoli segni di un mistero che non può rivelarsi e che dovrà rimanere tale.
Le fotografie di Vivian sono state scoperte per caso nel 2007 da John Maloof grazie ad uno scatolone comprato in un’asta, assieme ad alcuni fogli di carattere burocratico appartenenti una volta a Vivian. A parte le cose contenute nella scatola trovate da Maloof, non c’era nessun’altra traccia della donna su internet, il suo nome non era citato da nessuna parte. Grazie ai fogli trovati in questa scatola, Maloof è riuscito ad ottenere l’indirizzo di un magazzino con altri averi di Vivian: una stanza immersa di scatole di tutti i tipi con migliaia di rullini, fotografie, fogli, scarpe, abiti, registrazioni – una vita. Una vita intera lasciata così, quasi appositamente per essere ricostruita. Maloof ha quindi iniziato una ricerca approfondita e ha fatto sì che la fotografa venisse scoperta in tutto il mondo – oggi queste fotografie hanno riempito sale di numerose gallerie, rivelando diversi aspetti dell’America negli anni ’50 e ’60 e mettendo in risalto molte piccole cose a cui solitamente non facciamo attenzione.
Le 100.000 fotografie scattate da Vivian hanno un fascino unico – chiunque le osservi inevitabilmente nota il loro peculiare carattere. La cosa difficile da comprendere è come una donna che ha fatto una quantità simile di fotografie, palesemente interessata a catturare questi attimi dalla realtà circostante fermando il tempo, con un fantastico talento, abbia potuto decidere di tenere tutte quelle fotografie per sé, senza mostrarle mai a nessuno, nemmeno ai suoi amici più cari. Sembra quasi che le fotografie facessero parte, forse, della sua ossessione di collezionare cose che la interessavano. O forse non riteneva necessario condividere con gli altri la sua arte, trovava più giusto non mostrarla a persone estranee che forse non l’avrebbero capita, o le avrebbero dato troppe attenzioni.
“Non mi sono mai chiesto perché scattassi fotografie. In realtà la mia è solo una battaglia disperata contro l’idea che siamo tutti destinati a scomparire. Sono deciso ad impedire al tempo di scorrere. E’ pura follia.”, è stato detto dal fotografo francese Robert Dosineaun. Forse era così anche per lei: temeva che certe cose si perdessero – i momenti e le situazioni immortalati nelle sue fotografie, le storie contenute nelle pagine di giornale e tutti i fogliacci e gli itinerari contenuti nelle centinaia di scatole che portava con sé di casa in casa, e la sua vita stessa, con tutto ciò che conteneva.
È difficile comprendere un fotografo solamente da un articolo: consiglio quindi di dare un’occhiata al sito http://www.vivianmaier.com (e di guardare il documentario fatto molto bene uscito recentemente al cinema, Finding Vivian Maier) dove si può guardare una parte degli scatti di Vivian e vedere il mondo, in qualche modo, con i suoi occhi. Non possiamo sapere se il suo desiderio fosse quello che un giorno venissero scoperte queste fotografie e qualcun altro potesse osservare le piccole cose che aveva notato nella realtà che la circondava, ma se davvero il suo desiderio era quello di non perdere questi momenti possiamo permetterci di guardare, prima in fotografia e successivamente nella nostra realtà, questo mondo a volte strano, bizzarro; a volte tremendamente dolce; a volte semplicemente umano – e guardandolo, interiorizzandolo, mandare avanti una certa realtà, fermata nel tempo negli scatti di Vivian, affinché non vada persa.
Tamar Levi
Bibliografia online
Finding Vivian Maier, di John Maloof, Charlie Siskel