Nella nostra esperienza quante volte abbiamo detto: “sono innamorato”, o: “sono malinconico”, o varie altre frasi che indicano un nostro stato d’animo, un nostro sentire. Abbiamo creato un grande numero di parole per cercare di descrivere tutti i nostri sentimenti, differenziando l’angoscia, l’amore, la gioia, etc..
Per ricostruire la storia di un sentimento, occorre per forza seguire una strada strettamente legata al linguaggio. Come infatti potremmo parlare di un sentimento senza un termine per indicarlo? Quando un sentimento si materializza in una parola, ciò porta con sé conseguenze degne di attenzione. Da una parte, il passaggio alla verbalizzazione suscita riflessione e a volte critica; dall’altra parte, non appena il nome di un sentimento compare, con lo stesso meccanismo della moda tale nome contribuisce a fissare, diffondere, generalizzare l’esperienza emotiva di cui è l’indice. Il sentimento non è la parola, ma non si può disseminare che attraverso la parola. La Rochefoucauld addirittura diceva: “ ci sono delle persone che non si sarebbero mai innamorate se non avessero sentito parlare dell’amore”. Oggi, il linguaggio della psicanalisi offre ai nostri sentimenti una forma possibile attraverso cui questi possono essere espressi. Questa, sebbene semplicemente “applicata” all’esperienza interiore, ne diventa presto inseparabile.
Quello che mi propongo di fare è tracciare una breve storia del sentimento detto “nostalgia”. Questa storia ha l’interessante caratteristica di porci davanti non solo all’invenzione di un nome, ma anche all’invenzione del sentimento stesso, o piuttosto, come vedremo, di una malattia. “Nostalgia” è un termine del linguaggio comune; un grecista saprebbe trovarne subito l’etimologia: nòstos, ritorno, + àlgos, dolore, e quindi “dolore (nel senso di desiderio doloroso in quanto insoddisfatto) del ritorno”. Quello che pochi sanno è che questo termine comune non è affatto antico, ma anzi è molto recente, tanto che è probabile che il nonno di nostro nonno non l’abbia mai sentito, o, in caso contrario, abbia recepito la parola “nostalgia” come noi recepiamo la parola “dismorfofobia”. Il termine “nostalgia” nasce infatti nel 1688, ad opera del medico Johannes Hofer, che decide di dare questo nome al sentimento di angoscia che si poteva talvolta notare tra gli esiliati lontani dalla patria.
Prima di essere riconosciuti come degli stati anormali, alcune malattie sentimentali sono semplici turbamenti del corso abituale della vita, cui nessuno presta attenzione. Finché il paziente non considera di richiedere l’aiuto di un medico, e finché il linguaggio medico non comprende alcun vocabolo che possa designare tali turbamenti, essi non esistono in quanto malattie. Con la nascita del termine “nostalgia” nacque anche la malattia che entrò immediatamente nel mirino della medicina. Si manifestò allora a pieno il potere di “contagio” della parola: la gente iniziò a parlare di questa terribile malattia, la nostalgia, e così, alla fine del XVIII secolo, si iniziarono a temere i lunghi spostamenti, poiché, come confermavano i medici, si rischiava di contrarre tale malattia. L’ipocondria ingigantì il problema, e la neonata malattia iniziò anche a mietere vittime: i libri medici iniziarono a dichiarare che la nostalgia era spesso mortale, e dunque chi si trovava lontano dalla patria, al minimo sentore di malessere, riteneva di essersi ammalato, esagerava i sintomi, cadeva in depressione e questo spesso conduceva al suicidio, o comunque a un abbassamento delle difese immunitarie che portava ad ammalarsi davvero. Un circolo vizioso cui aveva dato il via semplicemente il neologismo di un sentimento.
Bisogna ammettere che il sentire che fu con gran successo denominato “nostalgia” esisteva anche prima di ricevere il suo nome tecnico, come esisteva il sadismo anche prima del marchese de Sade. Prima il sentimento della nostalgia portava un nome meno specifico: pòthos, in greco; desiderium, in latino, cioè termini con cui si intende un rimpianto o desiderio inappagato. Nei testi epici troviamo esempi di descrizione di quello che poi sarà il sentimento della nostalgia, che furono riscoperti con entusiasmo dopo la nascita del termine; un celebre esempio tra tutti è quello dell’omerico Odisseo, prigioniero di Calipso, che, insensibile alla promessa di immortalità della Ninfa, desidera rivedere anche soltanto il fumo che sale dai tetti della sua Itaca.
Sembrerebbe dunque che i nostri sentimenti preesistano alle parole che li denominano, rimanendo in uno spazio emotivo che non dipende né dalla lingua né dalla cultura; tuttavia esistono per la nostra “coscienza riflessa”, solo a partire dal momento in cui ricevono un nome. Una volta denominato, dotato di una identità, il sentimento non è più lo stesso. Un nuovo nome per un sentimento condensa in un concetto il significato di qualcosa che prima, benché presente in modo inconsapevole, non era compreso. Il nome, adottato e messo in circolazione, non si propaga solo nel dizionario, ma genera un nuovo sentire. Jean Starobinski afferma: “viviamo passioni i cui nomi ci precedono e che non avremmo provato senza di questi”. Di nuovo cadrebbe a proposito la citazione di La Rochefoucauld, ma possiamo anche prendere ad esempio il caso de I Dolori del giovane Werther: il suicidio esisteva prima del Werther, ma molti non si sarebbero mai suicidati se non lo avessero letto, e il suicidio dopo la lettura dell’opera assume un significato altro.
Vediamo ora come, dal 1688, la medicina si propose di affrontare la nostalgia. Si notò che aveva uno sviluppo e degli effetti simili alla malinconia, per quanto, a differenza dei malinconici, i nostalgici fossero accomunati da uno stesso identico desiderio: il ritorno in patria. Johannes Hofer notò che tra i più nostalgici c’erano i giovani svizzeri militanti negli eserciti esteri. Egli ipotizzò una carenza socio-affettiva nell’infanzia, che portava a un rimpianto di questa e di tutto quanto vi fosse legato, come il suolo patrio. La sua ipotesi suscitò molte critiche tra i contemporanei: attribuire la nostalgia a una tale causa era essenzialmente tacciare gli svizzeri di pusillanimità. Per difendere l’onore nazionale lo zurighese Jean-Jacques Scheuchzer propose un’interpretazione meccanica della nostalgia: la nostalgia era causata, secondo lui, da una differenza di pressione atmosferica. Gli svizzeri abitano infatti nelle zone più ad alta quota d’Europa e respirano un’aria leggera, sottile e rarefatta; scesi nella pianura i loro corpi vengono sottoposti a una pressione più forte che li comprime, facendo circolare il sangue, abituato a una pressione più leggera, con difficoltà e lentezza. Da questo minor circolo di sangue sarebbero derivati i vari effetti della nostalgia: tristezza, mancanza di sonno e appetito, e infine febbre, spesso mortale. Come trattamento per lo svizzero nostalgico Scheuchzer prescriveva che, se non lo si fosse potuto rimpatriare, lo si fosse mandato in collina o su una torre, dove avrebbe respirato un’aria più leggera; gli si sarebbero potuti poi dare farmaci contenenti “aria compressa” (per esempio a base di salnitro), e cibi ricchi di sostanze leggere. La teoria di Scheuchzer valeva poi anche per spiegare i benefici effetti del clima svizzero: la Svizzera infatti era considerata un asylum languentium, e il motivo era proprio l’aria leggera che dilatava i canali del corpo e facilitava la circolazione dei fluidi.
Solo successivamente si arrivò a ipotizzare che la nostalgia fosse legata alla memoria e ai ricordi. Fu Théodore Zwinger a menzionare per primo il manifestarsi di sintomi nostalgici sempre tra i militari svizzeri all’estero al sentire “una certa cantilena rustica, al suono della quale i contadini svizzeri fanno pascolare le loro greggi nelle Alpi”. Gli ufficiali furono costretti a vietare e punire severamente chi persisteva a cantare tale canzone, che incitava i soldati a disertare o suicidarsi. Il fenomeno della canzone era spiegato attraverso l’associazione di idee: bastava che un elemento di un complesso di idee collegate tra loro venisse evocato, perché si palesasse alla coscienza tutto il complesso. La canzone dunque evocava agli svizzeri tutte le peculiarità del loro paese, il luogo della loro giovinezza. Kant nella sua Antropologia propone un’interpretazione più radicale: quello che desidererebbe il nostalgico non è il luogo della giovinezza, ma la sua stessa giovinezza, ormai irrecuperabile; la coscienza di questo “non ritorno” getta il malato di nostalgia nella disperazione che lo porta infine al suicidio.
Si iniziava a prendere molto sul serio la nostalgia. Molto spesso si proponeva il congedo ai militari affetti, o anche l’ospedalizzazione. Come sempre per le malattie “morali” i trattamenti non erano solo dolci e accomodanti: si cercava spesso di vincere la nostalgia con il dolore o il terrore. Considerando inoltre che molto spesso i militari si fingevano affetti dalla nostalgia per ottenere un congedo, i generali spesso adottavano dure misure con i loro soldati. Un generale russo nel 1733, durante un’avanzata in Germania, si trovò gran parte dell’esercito dichiarantesi affetto da nostalgia. Fece allora dire che il giorno seguente i primi che si fossero dichiarati ancora malati sarebbero stati sotterrati vivi; il giorno seguente mise in esecuzione la minaccia su due o tre soldati che ancora si dichiaravano nostalgici, e da quel momento non ci fu più nessun nostalgico nell’armata. Contro i simulatori i medici sostenevano di poter riconoscere da una serie di sintomi oggettivi i veri malati. Si credeva dunque fosse possibile fissare un quadro clinico della nostalgia. Per un certo tempo si pensò che le purulenze ai polmoni che si trovarono sezionando alcuni morti nostalgici fossero la prova dell’esistenza di bacilli della nostalgia. Si sarebbe scoperto in seguito che si trattava in realtà della tubercolosi, il cui insorgere poteva essere favorito dalla depressione causata dalla nostalgia, che, come si è detto, porta a un abbassamento delle difese immunitarie.
Venuta meno l’ipotesi dei bacilli della nostalgia, la malattia venne bandita dai manuali di clinica medica, e comparve in qualità di malattia solo molto sporadicamente nelle opere mediche del ‘900, fino a scomparire del tutto. Cambiò allora il significato della parola: non più malattia, ma reazione; non più desiderio di ritorno, ma difetto di adattamento. Una tale trasformazione del concetto, secondo Starobinski, è probabilmente indicativa di un cambiamento nella geografia sociale: lo spostamento sociale dal villaggio alla grande città. Mentre in passato la realtà peculiare del villaggio era stata interiorizzata al punto che il membro del villaggio poteva identificarsi solo in tale realtà, nella grande città si è persa questa micro-dimensione in cui identificarci. La nostalgia, nell’epoca contemporanea, la ritroviamo nel bambino al momento in cui abbandona la micro-realtà familiare. Dunque ciò che prima era stato definito come un rapporto relativo al luogo natale, è principalmente ridefinito al giorno d’oggi come un rapporto con il proprio nucleo familiare e con i primitivi stadi di sviluppo personale. Oggi la nostalgia non designerebbe più una patria persa. Rifacendosi a quanto aveva già detto con grande anticipo Kant, Starobinski afferma che per l’uomo della città moderna, che non ha più le radici della micro-realtà del villaggio, il problema che sorge è il conflitto tra le esigenze dettate dall’integrazione al mondo “degli adulti” e la tentazione di conservare i privilegi dello stato infantile. L’abbondante letteratura dell’esilio diventa allora, per la maggior parte, la letteratura dell’infanzia perduta.
Beniamino Peruzzi
Bibliografia
Jean Starobinski, L’encre de la mélancolie, Seuil, 2012