Majakovskij – Il circo della rivoluzione

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Da Palazzeschi a Picasso, da Rilke a Monet, risulta evidente come, nell’immaginario artistico e poetico sviluppatosi a cavallo fra il secolo XIX e XX, il circo sia pensato come qualcosa di completamente altro dalla storia, spazio perenne dell’evasione. E, in effetti, la stessa struttura dello spettacolo circense lo rende facile a concepirsi come mondo avulso da quanto avvenga all’infuori del suo cerchio, dotato di spazio e tempo suoi propri e leggi autonome; “arte minore” proprio perché incapace di veicolare significati che non siano perfettamente autoreferenziali.

Pure, le congiunzioni casuali e confuse che la storia talvolta realizza nel suo moto, hanno fatto sì che il fumoso e turbolento mondo del circo sia venuto a trovarsi parte e partecipe di uno degli eventi storici più importanti di quest’epoca: la rivoluzione russa. Ed ecco che, per la prima volta il mondo circense si trova a confronto con la storia, con l’arte ”ufficiale”: quella dei teatri e della classe dirigente. Specchio deformante che carica d’ambiguità la chiarezza del fatto storico, che dà leggerezza e maniera alla grave violenza degli eventi.

Ecco allora, in questo sempre più complesso gioco di specchi, che la lente del circo consente al genio di Majakovskij e a quello di Chagall di rendere la rivoluzione arte.

Per comprendere su cosa vertesse la ricerca estetica di Majakovskij, e quali i suoi punti di convergenza con l’immaginario circense, è bene risalire al movimento del cubofuturismo, fondato da lui e Chlebnikov nel 1908. Il cubofuturismo guardava al recupero delle grandi civiltà del passato, soprattutto asiatiche, condotto per mezzo di un impiego personalissimo del linguaggio: privato delle strutture logico-discorsive e affidato alle potenzialità evocative dei fonemi e della simbolicità delle lettere, il linguaggio si colloca ora a metà via tra una dimensione magico-regressiva e una invece sperimentale e utopica. Da una parte, cioè, è valorizzato il sentimento della tradizione (intesa quale recupero dell’arcaico, dell’originario, del rimosso storico); dall’altra si sviluppa un’inquieta ricerca di nuove possibilità comunicative, di forme intentate di espressione, potenzialmente universali. La frammentazione del discorso poetico, fino all’elencazione di soli nomi, e perfino alla giustapposizione di lettere dell’alfabeto o di monconi di parola, tocca il suo punto più estremo nelle composizioni “transmentali”, cioè sottratte al controllo della logica razionale e protese alla ricerca di una nuova e inedita sensibilità linguistica. È proprio da questa disgregazione dell’ordine razionale e compositivo che il movimento riceve la qualifica di Cubofuturismo, in riferimento al movimento artistico del Cubismo e alla sua scomposizione dei punti di vista. Da qui deriva l’interesse dei poeti e degli artisti d’avanguardia russa per il circo: il misticismo di un mondo chiuso in se stesso, che rimanda alle tradizioni antiche, che porta con sé tutto il potere dei saperi, delle credenze e dell’attività popolare

Tutti questi elementi l’avanguardia russa li ha in comune con il resto delle avanguardie d’Europa: con il nostro Marinetti e con il Brücke di Dresda, destinati ad incontrare il biasimo del pubblico che arrivò a definire le loro forme d’espressione “arti degenerate”. In Russia tuttavia è il motore stesso della storia a realizzare davvero l’esplosione futurista, il suo divenire Arte a tutti gli effetti, trascinando con sé sul podio e contaminandosi indissolubilmente con quel mondo del circo da cui tanto aveva attinto, in cui tanto era maturata.

All’indomani dell’Ottobre, l’interesse generale per il teatro si intensifica, le rappresentazioni irrompono nel quotidiano della vita del popolo. Nascono studi sperimentali e laboratori, scuole drammatiche e sezioni teatrali di partito: ben presto nasce la TEO Teatral’nyj ‘Otdel (Sezione teatrale) e ogni fabbrica o reparto militare viene dotata di una sua compagnia d’attori, fino a quel momento appannaggio esclusivo del facoltoso e aristocratico pubblico del Bolshoi, e delle sue commedie borghesi e francesizzanti.

L’avvicinamento del teatro al circo fu probabilmente frutto di un processo in parte spontaneo e in parte pilotato: da un lato rifletté quest’ansia di vita illusoria, questa totale estraneità della neonata “gente di teatro proletaria” agli schematismi e alle convenzioni teatrali che veicolava la nascita di forme affiliate a quel sottobosco ancora incerto del mondo del circo: dal quale traeva l’antintellettualismo di un’arte comprensibile e vicina al quadro esperienziale di una vastissima popolazione, che portava con sé ricordi d’infanzia di riti rurali, comici vaganti, feste e sagre di paese. E dall’altro lato un’operazione diretta dall’alto, da un ministero che vedeva nel recupero della tradizione circense russa la possibilità di recuperare parte del consenso della vecchia sinistra slavofila , assieme alla possibilità di trattare una materia per definizione talmente duttile e fumosa da risultare adattissima all’operazione di propaganda comunista.

Lo stesso Fellini riconosce che l’attenzione del potere sovietico verso il mondo circense rappresenta il primo atteggiamento scientifico che si ricordi al mondo, nella gestione di questo settore delle arti. Principale merito va alla figura di Anatolii Lunacarskij, il primo commissario del popolo all’istruzione della Repubblica sovietica. Lunacarskij tentò di innalzare il circo al pari di tutte le altre arti, questo circo offeso dagli intellettuali borghesi e dagli stessi dirigenti di partito, che stentavano a coglierne la portata rivoluzionaria.

Nel 21 Lenin inaugura la NEP, con cui la classe borghese rientra prepotentemente in auge: lo stato smette di sovvenzionare circhi e teatri. Però per mantenere un controllo invece rigido e “ortodosso” degli spettacoli nasce la GOSCYRK, al prima Direzione Generale dei Circhi di Stato: nasce così il circo di stato sovietico, quasi un sindacato che si occupa di curare i rapporti fra circo e partito. Ed è in questo contesto di repressione artistica e intellettuale, mentre la caccia al nemico interno si sta facendo sempre più ossessiva, mentre l’ardore dei rivoluzionari è diventato odio dei sovversivi, che pian piano alle forme dinamiche e irriverenti del cubofuturismo va sostituendosi la statica solennità del realismo encomiastico. In questo clima, in cui Mandel’stam e Florenskij per la loro arte sperimenteranno l’orrore del gulag, Majakovskij decide di tentare un’impresa dall’ambizione mastodontica, che si pone al compimento di quella ricerca poetica iniziata vent’anni prima: riunire davvero due mondi, confondere storia e circo. Ecco che l’irrazionalità è nella storia, il senso nel suo racconto insensato. Questo è quello che nel 1930 mette in scena Majakovskij, quando porta sul palco Mosca arde, di cui è particolarmente significativo il primo atto, dedicato alla rivoluzione del 1905.

Lo spettacolo si sforza di trovare nel turbine circense un fil-rouge, cercandolo nella linea cronologica: gli eventi sono quelli che si succedono dal 1905 in poi, ma ci si rende ben presto conto di quanto l’evento narrato si adatti perfettamente ad una narrazione centrifuga, alla frammentazione episodica tipica degli spettacoli da tendone. Sono tante piccole pièce tenute in fila dalla voce di un araldo. Assistiamo subito ad una parata: entra in scena in pompa magna riempiendo il cerchio vuoto dapprima la corte, che vortica intorno a file interminabili di militari, ora a piedi ora a cavallo,. La corte danza sui trapezi un ballo aereo e segreto. Irraggiungibili dai comuni mortali, i trapezisti diventano metafora di un’aristocrazia che ha perso ogni contatto con la realtà, ma che pur ancora ha in sé una grazia elegiaca, una vita straniata ma perduta per sempre.

Neanche il tempo di pensare e le luci si spengono. La scena si stravolge di nuovo, secondo lo schema antico del circo, che presenta i numeri in rapida successione. Qui però il marasma tra alti e bassi, vuoti e pieni, acquista un ritmo allucinatorio. La folla sparisce e rimane in scena un clown musicale in penombra. Inizia la circo-poesia.
L’aedo è ubriaco fradicio, e intona una canzoncina strampalata muovendo le dita sulla bottiglia, a mo’ di cetra, Ha una corona sul capo messa di sghembo. Solo dal basso, solo dal fondo della società umana, da una dimensione miserrima e straniata, può partire la denuncia. Il disincanto necessario a smascherare quel mondo strabiliante, che ha incantato tutti. Pure, la scelta di un vate tale, non può non nascondere una velata critica al semplicismo dei moti del 1905, una totale mancanza di basi forti teoriche: il cantore delle gesta del popolo non è che un ubriaco che recita una filastrocca.

Ecco che la costituzione viene schiacciata dalle manone di gommapiuma di un generale Trepov-clown a suon di sonori schiaffoni. C’è forse una resa migliore per l’atteggiamento grottesco e crudele dell’esercito? Non è questo uno dei tentativi più riusciti di congiungere materiale e simbolico, renderlo con un linguaggio d’abitudine non-significante? Intanto esperti giocolieri cominciano a manipolare enormi carte da gioco, su cui è stampato il testo della costituzione zarista. Fanno un castello di carte alto quasi tre metri, struttura al contempo imponente e fragilissima. Sopra infatti, su una piattaforma soprelevata ci sono lo Zar, la Zarina e i ministri, che iniziano a soffiare con quanto fiato hanno in corpo, facendo rovinare essi stessi a terra il loro castello.

Inizia la stagione degli scioperi: un operaio e un poliziotto si inseguono prima sulla corda elastica, poi sul trapezio, eseguono esercizi icariani nel corso dei quali il poliziotto precipita rovinosamente a terra, mentre l’operaio continua a vorticare per aria, con moltissimi volantini che gli cadono dalle tasche. I poliziotti vengono portati via da auto-ambulanze clown su enormi lettighe. Ora su tre megaschermi alle spalle del pubblico appaiono un treno in corsa, un tram a cavalli, una fabbrica in attività. Ad un cenno dell’operaio sui trampoli tutto si arresta. La violenza della rappresentazione continua con la soppressione della rivolta: i clown operai costruiscono povere barricate di materassi e mobilio di fortuna, mentre agghindati da parata, incedono i soldati. L’annientamento della rivolta viene simboleggiato dal virtuosismo circense, dalla superiorità della tecnica con cui soldati-acrobati sollevano e portano via la popolazione con arditi avvitamenti sul trapezio, equilibrismi sul cavallo impennato.

Ecco che la “festa rivoluzionaria” rimane uno scenario di morte spoglio: un clown alza un fazzoletto bianco che in risposta viene crivellato. L’araldo annuncia la vittoria dello Zar, cui consegue l’immensa costruzione di una “piramide delle classi”:

L’arena si illumina a giorno: nel mezzo sorge una piramide. Il basamento è composto da operai incatenati, intenti a lavorare; la fila superiore dal ceto avido dei funzionari; la terza fila da Pope e dal clero tutto; la quarta dal governo, la quinta da borghesi e latifondisti, mentre proprio in cima c’è lo zar con l’enorme corona (per il ruolo dello Zar viene scelto un nano bagonghi, ndr). Mentre la piramide rimane eretta, accanto allo steccato che cinge l’arena passano, sotto scorta, incatenati per aver difeso la rivoluzione, condannati ai lavori forzati. (didascalia d’autore)

La rivoluzione è fallita, gli operai sono di nuovo trattati come schiavi e a sobbarcarsi l’economia di un intero paese. La piramide delle classi si innalza poderosa sul sipario che cade.

Camilla Balbi

Bibliografia

M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 2001

V. Majakovskij, Tutte le opere, ed. Pgreco,  2012

J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, Bollati Boringhieri, 1984

M. Vittori, Il clown futurista, Vulzoni, Roma 1990

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