Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, il sistema punitivo europeo ed americano conobbe un radicale mutamento: il supplizio pubblico dei condannati, sanguinosa usanza medioevale spogliata d’ogni aspetto religioso, laicizzata e perpetrata con l’unico scopo paideutico, venne sostituito da esecuzioni sobrie, fatte lontano dall’occhio del pubblico. La pena assunse così un aspetto segreto, intimo, un regolamento di conti fra il condannato e la giustizia. Foucault descrive tale fenomeno servendosi dell’ esempio dell’ ultima “catena”, tradizionale supplizio francese in cui i detenuti sfilavano sulla pubblica via, in marcia verso la detenzione. Il carattere pubblico di simili eventi, come detto in precedenza, doveva fungere da deterrente per la popolazione, ma quel 19 luglio 1836 il supplizio assunse l’aspetto, come scrive Foucault, “(…) della festa dei pazzi, in cui si pratica l’inversione dei ruoli”. Quella forma di punizione infatti, piuttosto che suscitare rimorso nei condannati, istigò la fierezza, “La giustizia […] viene ricusata e biasimata la folla che viene a contemplare quelli che credono pentimenti o umiliazioni”; i criminali si scagliarono contro un sistema più criminale di loro, in cui era difficile distinguere il giudice dal boia.
Questo sentimento di rivalsa verso l’ordine costituito, che tanto umiliava quegli uomini senza riuscirne a spezzare lo spirito, contagiò la folla, inebriata dai canti e dalle invettive di quella “armata del disordine”, spolverando malcontenti sopiti ma mai dimenticati. Il prigioniero in questione è quello della canzone Nella mia ora di libertà di Fabrizio De André, promette di ritornare, poiché nessun potere dura in eterno, scuote la coscienza collettiva e contemporaneamente la condanna: “Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.
Nel giugno 1837, la monarchia soppresse la catena. Al suo posto, scrive Foucault, subentrò una carrozza le cui caratteristiche la facevano assomigliare ad un Panopticon mobile: “Un corridoio centrale la divide in tutta la sua lunghezza: da una parte e dall’ altra sei celle, dove i detenuti sono seduti di faccia. I loro piedi vengono introdotti entro anelli che sono all’ interno foderati di lana e riuniti tra loro da catene di 18 pollici; le gambe sono fermate con ginocchiere di metallo […] la cella non ha alcuna finestra; è interamente foderata di latta; solo un vasistas, anch’ esso di latta, lascia passare una <<opportuna corrente d’ aria>>”. Inoltre non c’era possibilità per i condannati di dialogare fra loro.
Veloce, lugubre, silenziosa, non dà nell’occhio, solo una scritta “Trasporto di forzati” delucida l’eventuale spettatore. Ecco dunque, secondo Foucault, il futuro della pena: la prigione. Un modo di punire che non colpisce più il corpo, come nei supplizi, ma lo spirito.
L’ analisi di Foucault procede dichiarando lo scacco pressoché istantaneo di questa nuova arte di punire. Le prigioni risultano infatti fallimentari dalle sue prime applicazioni, esse “…non diminuiscono il tasso di criminalità; possiamo estenderle, modificarle, trasformarle, la quantità dei crimini e dei criminali rimane stabile, o, peggio ancora, aumenta, […] la detenzione provoca la recidiva”. Il detenuto viene spogliato della sua umanità, isolato nelle celle, obbligato a sopportare soprusi che la legge non prevede da parte di agenti dell’autorità. Così egli impara ad odiare la giustizia ed una volta in libertà ricadrà nell’illegalità. La prigione diventa quindi un sistema dotato di una tecnica penitenziaria per la creazione di un determinato tipo di illegalismo, una fabbrica del crimine.
Ma se essa è risultata fallimentare fin da subito, perché tutt’ oggi è utilizzata? Foucault adduce la ragione dell’ interesse economico: abbiamo detto che la prigione consente di creare un determinato tipo di infrazioni, di isolarne i fautori, essa sarebbe dunque un meccanismo per istituzionalizzare l’ illegalismo popolare. Il criminale in questione diviene una figura politica, usato da una giustizia di classe come capro espiatorio; essendo una classe sociale impermeabile ad amministrare la giustizia, chi ne fa parte può dettare le regole del gioco, promulgando leggi che puniscano un determinato tipo di condotta illegale invece di un’ altra, “Essa contribuisce ad organizzare un illegalismo vistoso, definito, irriducibile ad un certo livello e segretamente utile, […] essa disegna, isola e sottolinea una forma di illegalismo che sembra riassumere simbolicamente tutte le altre, ma che permette di lasciare in ombra quelle che si vogliono o si devono tollerare”.
Abbiamo dunque un illegalismo di classe sotto i riflettori, istituzionalizzato dal potere anche grazie alla stampa; abbiamo un criminale tipizzato, forgiato dal sistema carcerario e da esso riciclabile ancora ed ancora. Dietro questa facciata si cela la delinquenza, quella organizzata, produttiva, conveniente. Foucault la identifica nel mercato della prostituzione, o nel brigantaggio; oggi, attualizzando, potremmo pensare alle mafie. Una delinquenza a cui è permesso di agire indisturbata: essa è presente nelle prigioni, dove addestra i suoi futuri soldati, ma i suoi traffici rimangono invisibili agli occhi del pubblico, addestrato ormai a pensare ad un certo tipo di criminale. Scrive Foucault: “Possiamo dire che la delinquenza, solidificata da un sistema penale centrato sulla prigione, rappresenta uno stornamento d’ illegalismo per i circuiti di profitto e di potere illeciti della classe dominante”.
Complice di questo processo è l’organo di polizia, il quale garantisce una sorveglianza generale sulla popolazione, anche tramite una rete di informatori, ex-detenuti senza possibilità di reintegrazione nella società civile. La polizia diviene parte del meccanismo fin qui descritto fornendo alla prigione soggetti che commettano illegalismi affinché quest’ultima possa trasformarli in delinquenti. Scrive De André: “…E adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali, tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali”.
Alla luce del circolo vizioso appena descritto, è necessario modificare il sistema rieducativo del carcere, agendo direttamente sugli individui per mezzo di operazioni culturali a lungo termine: abbiamo precedentemente parlato del detenuto che necessariamente sviluppa avversione alla giustizia, vedendola come carnefice, ebbene in tale sede è possibile inserirsi per rompere il suddetto circolo, educando o, più spesso, rieducando il soggetto alla legalità, fornendogli un’istruzione di livello, insegnandogli i valori dell’ ordinamento. Recuperando insomma il dettato costituzionale che identifica il carcere come luogo di riabilitazione.
Non basta, tuttavia, agire sui detenuti, si dovrebbe educare anche l’opinione pubblica, privando la figura dell’ex-galeotto di ogni pregiudizio, normalizzandola, cosicché quest’ultimo possa, una volta scontata la propria pena, ritrovare un posto nella società. Parallelamente si deve agire sulla struttura di quella che abbiamo finora chiamato delinquenza, sradicandone la convenienza economica, poiché essa le permette di sopravvivere come criptocrazia.
Angelo De Simone
Bibliografia:
Michel Foucault, Sorvegliare e Punire, la nascita della prigione, Einaudi, Torino 2014.
Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà (Storia di un impiegato) in Come un’anomalia. Tutte le canzoni, Einaudi, Torino 1999.
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