Πάθει μάθος – “Col patire, capire” tra Eschilo e Archiloco

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L’uomo greco si poneva in fondo ad una sorta di scala gerarchica degli animati, ritrovandosi così a sottostare al volere degli dei capricciosi, “potenti, dai troni celesti”, ma ogni cosa è dominata dal caso, impersonato dalle Moire, che ha talmente tanto potere da essere indeterminabile e incomprensibile per l’uomo. Durante la nostra vita viviamo in perenne attesa di tempi migliori e in perenne paura di perdere quel bene tanto agognato, così da ritrovarci in una continua incertezza e per questo Eschilo tramanda che si debba lasciare che il futuro giunga senza che sia trepidamente atteso, perché interrogarsi su ciò che accadrà “sarebbe un dolersi troppo affrettato”.

L’unica cosa che l’uomo può fare è sopportare, poiché gli dei gli hanno fatto questo dono, che è l’unico φάρμακον, (in greco il termine è una vox media, che può intendere sia la cura, sia il veleno) per i dolori umani e “irrimediabili”. Sopportando si riesce a imparare, imparare a vivere prima di tutto, a conoscere il ritmo, la misura esatta, come se ci fosse una quantità esatta per ogni dolore “irrimediabile”, come se l’uomo non riuscisse a sopportare, ritenesse sconfinato, qualcosa che per i “Potenti” è la misura giusta se bilanciata da una felicità equivalente: la vita dell’uomo è vista come una bilancia da equilibrare in ogni momento, ed in ogni momento l’uomo si sente pronto a cadere sovrastato dal peso del dolore che riempie i polmoni; non a caso poi il simbolo della giustizia è la bilancia che “inclina con tutto il suo peso // verso chi ha patito, che capisca”, perché solo chi ha abbastanza sofferto da comprendere la vita ha diritto alla giustizia, che riequilibra, che dona felicità, “è questa la grazia brutale – diresti – // dei Potenti, dai troni celesti”. E la sopravvivenza necessita l’equilibrio, così che tutti devono equilibrarsi, anche se non vogliono, poiché Zeus vincitore ha posto questa legge.

Eschilo vede questa condizione di “chi ha patito, che capisca”, come molto personale, quasi intimistica e introspettiva: ogni uomo soffre in sé e in silenzio e allo stesso modo comprende, vivendo questo avvenimento come una sorta di elevazione personale, scissa dalla società in cui vive. Così Agamennone non appena torna in patria, nella felicità generale, sa già, almeno inconsciamente, che Clitennestra vuole vendicarsi dell’uccisione di Ifigenia, e soffrendo capisce che quando “deviò la sua mente su una rotta contraria, // di sacrilega, oscena empietà, fu la svolta // che lo spinse, di dentro, a osare l’estremo. // La follia miserabile, infatti, coi suoi sconci // pensieri –madre di crimini- accende i mortali.” (vv. 118-21). Perciò “a chiunque tocca equilibrare i pensieri; // anche a chi non vorrebbe.”, perché il padre degli dei ha posto la strada dell’equilibrio, alla cui base c’è appunto il πάθει μάθος.

In Archiloco invece la condizione di sofferenza è vista a livello sociale, ovvero ciò che ogni uomo deve comprendere quando soffre è che non è il solo, che non può affliggersi troppo per i dolori, poiché ogni uomo è destinato a soffrire in una misura giusta. Per esempio il frammento 13, il cui primo verso (“κήδεα μέν στονόεντα,Periìklees, οὔτε τις ἀστῶν) non è concluso in sé, ma sintatticamente prosegue al verso successivo (“μεμφόμενος […] οὐδὲ πόλις”), comincia con i “dolori luttuosi” (in sintassi, il complemento oggetto della frase) e, dopo un’esortazione all’amico caro (Pericle), viene introdotta la prima parte del soggetto “nessuno dei cittadini”, legato in enjambement al verbo “biasimerà” (“μεμφόμενος”), che apre il secondo verso, alla cui fine si presenta la seconda parte del soggetto “né la città” (“οὐδὲ πόλις”); ciò ci mostra come subito Archiloco, pur partendo da una condizione personale e singola, estenda il dolore all’intera comunità.

Ma egli esorta il suo amico a sopportare questo dolore perché presto esso si volgerà verso altri (v. 9 “ἐξαῦτις δ’ἑτέρους ἐπαμείψεται”) e proprio perché nella visione di Archiloco l’uomo non può comprendere il motivo di questa sorte molteplice, il poeta introduce il Caso, che assegna ora a uno, ora a un altro la sventura, lasciando felicità a chi prima ha sofferto. Per questo ciò che l’uomo deve fare è semplicemente attendere una sorte più propizia, agendo μὴ λίην, ovvero non eccessivamente, per evitare di peccare di ὕβρις (la superbia, tema carissimo ai greci e alla base di molte tragedie, prima tra tutte la stessa Agamennone) nei confronti del resto degli uomini che sono destinati a soffrire e che dovrebbero vivere più serenamente possibile questa condizione, sapendo che comunque è concessa loro felicità, per bilanciare e dare giustizia alla vita di ognuno.

In conclusione (fr. 128) Archiloco esorta a conoscere il ritmo che governa gli uomini (v. 7 “γίνωσκε δ’οἷος ῥυσμòς ἀνθρώπους ἔχει”), ovvero quello che dona sventura e fortuna, così da evitare di soffrire, poiché si conosce quanto durerà il proprio dolore; come dice Snell poi è proprio “la conoscenza di quest’alterna vicenda delle cose” che “rende più facile sopportarla”, così che è proprio la società, l’umanità a salvare il singolo uomo dal proprio dolore.

 

Maria Sole Delfino

Bibliografia:

Eschilo, Agamennone, trad. Ezio Savino, ed. Garzanti (specialmente vv. 174-8, 180-3, 250-3), 1989
M. Pintacuda, M. Venuto, Grecità 1, Palumbo Editore, 2012
B. Snell, La cultura greca, Einaudi, 1953
M. L. West, Iambi et elegi Graeci ante Alexandrum cantati, 1: Archilochus, Hipponax, Theognidea, ed. M. L. West, Oxford: Clarendon Press, revised edition 1989 (specialmente fr. 13, 128)

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