Il relativismo, con alterna fortuna e centralità, mostra la sua presenza in pressoché ogni dibattito in seno alla cultura contemporanea, tanto che sembrerebbe impossibile poterne ormai dire qualcosa che si sottragga al già detto delle sue apologie, vetuste quanto le accuse nei suoi confronti.
Eppure, come tutto ciò che si installa in un sostrato culturale per lungo tempo, si finisce spesso o per non vederlo o per dare per scontato che ognuno nel dibattito sappia ciò di cui si sta parlando; proprio questo secondo caso, unito alla penetrazione del relativismo nel linguaggio comune, causa sovente (per non dire quasi sempre) l’uso d’una concezione scarsamente approfondita dei suoi concetti, anche presso pensatori di notevole spessore. Tentiamo allora in questa sede, senza alcuna pretesa di completezza, di dare una risposta alla raramente formulata domanda: “Che cos’è il relativismo?”.
È usuale riassumere la totalità di questa concezione nella frase “Tutto è relativo”; già queste parole ci mostrano la maniera superficiale con cui la questione è generalmente affrontata, in primo luogo per come il contenuto espresso viene effettivamente inteso tanto da chi parla quanto da chi ascolta: tale proposizione è spesso impiegata non a caso per troncare delle discussioni, poiché viene utilizzata come l’equivalente di “De gustibus non disputandum est“, il che non significa tuttavia che ogni verità ha senso solo in un certo fascio di relazioni, ma che la verità è contingente questione di gusti: non si sta allora realmente dicendo che tutto è relativo, ma che tutto è arbitrario, equazione pericolosamente errata, alla base di gran parte dei fraintendimenti in quest’ambito. Altra grande dimostrazione di superficialità è la forma in cui la frase è espressa: “Tutto è relativo” è una proposizione assoluta, che presa alla lettera senza considerare dei sottintesi non significa nulla: “Tutto è relativo” a cosa?
Finché il relativismo è espresso in questa forma banalizzata e assolutizzata, ha pienamente ragione chi, da Platone a Karl Popper, lo deride quale concetto autoconfutatorio che pur asserendo la relatività d’ogni conoscenza ritiene il proprio punto di vista valido in modo assoluto. Alla luce di quanto messo in rilievo nel paragrafo precedente, una definizione più adeguata avrebbe una forma di questo tipo: “Ciascuna conoscenza acquisisce carattere di validità solo all’interno di un determinato orizzonte di senso, ovvero in un certo fascio di relazioni che questa intrattiene con altre secondo determinati criteri teoretici – secondo razionalità – e pragmatici – secondo ragionevolezza -“*; risulta allora chiaro come il sottinteso necessario di ogni discorso relativista che non voglia perdersi in astratte vaghezze è la presenza di un contesto adeguatamente (il che non implica tuttavia necessariamente formalizzazioni) definito ed analizzato nel suo insieme e nelle relazioni che lo compongono.
In questo modo, infatti, emerge chiaramente come al mutare dei contesti e delle relazioni certo muti la validità delle singole conoscenze e il loro statuto di verità, ma anche che dati certi contesti e certe relazioni le singole conoscenze avranno una certa validità e un certo statuto di verità: saranno oggettivamente indagabili (purché non si carichi il termine “oggettivo” di assoluta universalità come nel senso comune, ma lo si intenda come intersoggettivamente controllabile), e come tali, laddove omogenee, confrontabili tra loro.
Facciamo un esempio: cos’è necessario per esplicare oggettivamente un moto planetario? Un paradigma scientifico declinato nella disciplina specificamente in esame (ovvero, attualmente, la teoria della relatività generale einsteiniana) e il contesto fisico particolare del pianeta in termini osservativi e matematici (ovvero i campi gravitazionali con cui interagisce, con cui è in relazione); in questo caso il presupposto inespresso è il paradigma, i dati su cui si orienta esplicitamente il discorso quelli relativi al moto planetario in esame. Se assumessimo il paradigma scientifico newtoniano il discorso muterebbe, non potremmo parlare di campi gravitazionali ad esempio, e tanto la nostra rappresentazione di quel moto quanto i nostri calcoli sarebbero differenti (nella fattispecie anche meno adeguati alla sua descrizione, come ci insegna la storia della scienza); ma, assunto come paradigma quello einsteiniano (dando per scontati eventuali aggiustamenti dei calcoli e dei dati osservativi naturalmente), avremo sempre il medesimo risultato, fatto di relazioni, ma oggettive, senza arbitrarietà alcuna. Inoltre, per esplicare il detto moto ci sono razionalmente necessari solo quei presupposti (su differenti gradi di generalità) ad esso contestuali, non occorre alcun riferimento a degli assoluti o a contesti differenti (come la chimica inorganica).
Dal momento che questo esempio ha una certa tecnicità ed è in gran parte teorico, chiarifichiamo con un caso più semplice ed eminentemente pragmatico: l’azione di aprire la propria automobile. In termini di possibilità pragmatiche (per non parlare di quelle logiche), dati il proprietario, le chiavi e la sua macchina ci sono infiniti modi in cui l’azione può essere compiuta: se un punto di vista relativista implicasse arbitrarietà e dunque impossibilità di raffrontare tra loro le differenti possibilità (garantendo a tutte di principio lo stesso grado di validità), nulla vieterebbe al proprietario di usare le chiavi per sfondare il finestrino, aprendo così l’automobile: ciò tuttavia, anche “a pelle”, ci suona immediatamente irragionevole (per usare un eufemismo). Certo, se dessimo le chiavi ad un aborigeno australiano che non ha mai visto una macchina e/o una chiave e gli dicessimo di aprirla probabilmente farebbe proprio questo, ma perché non ha conoscenza della pratica più ragionevole (più efficace) per compiere l’azione suddetta: non a caso, salvo eventualità eccezionali, chiunque ne conosca l’uso aprirà la propria macchina ruotando la chiave nella serratura.
Riprendendo le fila dell’intero discorso vediamo allora che il relativismo, se rettamente inteso, è lungi dal generare arbitrarietà: anche se compiendo astrazione ascendessimo nel mondo delle pure possibilità logiche e le considerassimo razionalmente equipollenti, al momento dell’azione reale sceglieremmo secondo pragmatica ragionevolezza, la quale è possibile proprio perché le relazioni sono variabili, certo, ma secondo criteri ben precisi, quelli che abbiamo brevemente analizzato nella prima parte di questo articolo.
Una sana concezione relativista dunque non è madre di un mondo senza regole, dove tutto è lecito perché nulla è assoluto, ma di un metodo aperto che pone attenzione alle differenze e tenta di comprendere la ricchezza del reale senza sacrificarle ad un’universalità astratta in fin dei conti, come si è visto, non necessaria.
Bernardo Paci
*Si potrebbe non ingiustamente obiettare che anche questa definizione si pone come vera ed assoluta; ciò tuttavia solo nel caso in cui venga intesa come descrittiva, mentre, trattandosi comunque di una proposta metodologica, essa si configura piuttosto come eminentemente prescrittiva: il suo statuto di verità non è dunque in gioco.
Bibliografia
Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Ed. Einaudi, Torino, 2009.
Giulio Preti, Praxis ed empirismo, Ed. Einudi, Torino, 1957.
Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Ed. Einaudi, Torino, 2009.
Immagine:
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