Capita raramente di imbattersi in testi poetici persiani e, quando capita, quasi sempre si parla dei grandi classici trecenteschi, Rumi e Hafez. Due nomi che forse non diranno nulla ai più, ma che inevitabilmente si legano alla straordinaria qualità dei testi di questi autori, al punto che, addirittura, Hafez per i suoi “ghazal” (un componimento con una forma simile al sonetto occidentale a lui contemporaneo e con contenuti a metà tra l’amore e la spiritualità sufi), viene spesso chiamato “il Petrarca d’Iran”.
La cultura persiana alla quale Hafez e Rumi appartengono è nata dall’incontro tra l’arido altopiano iranico e le orde di guerrieri arabi nel settimo secolo dopo Cristo, ed è ricca di un immaginario e di una sensibilità che nulla ha da invidiare all’Occidente, come questi pochi versi di Rumi chiaramente dimostrano:
“Ho bisogno d’un amante che, / ogni qual volta si levi, / produca finimondi di fuoco / da ogni parte del mondo! / Voglio un cuore come inferno / che soffochi il fuoco dell’inferno / sconvolga duecento mari / e non rifugga dall’onde!”
Da allora, però, la cultura dell’area iraniana si è sviluppata sulla scia dei suoi grandi maestri trecenteschi, senza essere in grado di rinnovarsi in profondità e, invece, cercando nuova linfa vitale dall’incontro coi popoli che si stanziavano di volta in volta nella regione.
Fu solo all’inizio del Novecento, in un contesto culturale e sociale completamente mutato, dove il colonialismo occidentale aveva sostituito le tribù dell’Arabia con lo stesso spirito conquistatore, che qualcosa cominciò a cambiare.
Tutta la poesia persiana contemporanea è legata al nome di un uomo, NimaYushij, che, negli Anni Venti del secolo scorso, cambiò radicalmente il volto e le forme della tradizione.
Veniva da un piccolo villaggio di provincia, Nima, ed era cresciuto con i pastori dell’altopiano, seguendo i ritmi della natura e imparando la cultura sciita, ma si era ben presto trasferito nella capitale.
Il padre, infatti, aveva deciso di mandarlo a studiare in un collegio cattolico di Teheran, portandolo di fatto ad esplorare una cultura e una realtà (la religione cattolica e la caotica capitale iraniana) diametralmente opposte rispetto a quelle dell’infanzia.
Forse proprio per questo, nel momento in cui Nima si confronta con la poesia la tradizione diventa per lui niente più che un punto di partenza, che non viene mai assunto a canone della sua scrittura. Immancabile, certo, soprattutto nei primi testi, ma in seguito la ricerca del poeta, a partire dagli Anni Venti, si oriento progressivamente verso ben altre mete, sia dal punto di vista contenutistico che formale, specialmente tramite l’introduzione del verso libero, fino ad allora completamente ignoto alla poesia persiana.
Quanto sembravano lontani ormai i “ghazal” di Hafez e di Rumi! Basta sentire questi pochi versi: “La mia casa è annuvolata / con lei tutta la terra è annuvolata. / Dall’alto del valico abbattuto, devastato e ubriaco, il vento imperversa. / Tutto il mondo ne è devastato, / e così pure i miei sensi. / Tu, o flautista, che la melodia del flauto ha fuorviato, dove sei?” per capire in quale direzione soffiasse il vento della novità poetica iraniana.
Questa ventata di cambiamento fu accentuata dal fatto che negli stessi anni nel Paese, anche per la mediazione delle vicine colonie francesi e britanniche, si diffusero tra gli strati colti della popolazione alcuni dei movimenti avanguardisti europei, quali l’espressionismo e il futurismo, i quali però, trapiantati completamente fuori dal loro contesto, ebbero effetti insieme caotici e dirompenti sulla realtà borghese di Teheran. La stessa realtà in cui, nel 1935, nasceva Forough Farrokhzad, fin dall’inizio della sua breve vita donna indipendente e dal carattere forte. Sarà in lei che tutte le istanze di rinnovamento della tradizione poetica troveranno un pieno compimento e soprattutto uno sviluppo originale rispetto non solo all’Iran ma a tutto il mondo islamico. Per raccontare la poesia di Forough, però, inestricabilmente legata alla sua vita, è necessario anche qualche dato biografico che inquadri i tratti fondamentali della sua vicenda. Le scelte lavorative di Farrokzhad, infatti, legate al mondo della moda e del design, si accompagnarono fin dall’età di sedici anni ad un sofferto matrimonio combinato con un uomo che la poetessa non amava.
È la storia di molte donne ancora oggi, quella dei matrimoni combinanti, e non certo solo iraniane. Ciò che sorprende di più, però, nell’esperienza di Forough, è il suo lamento che si leva alto sopra le mura delle case. Il marito, infatti, decise di imporle la rinuncia alla poesia, all’arte e a ciò che amava di più in favore di una vita ritirata e al servizio della famiglia e della casa. Una sorta di schiava, dunque, alla quale non era necessario dare voce. Durò tre anni, la fiera Forough, prima di riconoscere che per lei una vita come quella era del tutto impossibile da vivere.
Versi come “Noi abbiamo perduto / tutto ciò che potevamo perdere / noi, ci siamo messi in cammino, senza lume, / e la luna, / l’affabile femmina, luna, / era sempre lì / nei ricordi infantili di un tetto di argilla / e sui campi verdi / impauriti dall’assalto delle cavallette / Quanto bisogna pagare?”, rendono in modo efficace e fin troppo incisivo il dramma di questa donna. Dramma reso molto più grave, purtroppo, dalla presenza di un figlio che, in quei tre anni, aveva alleviato le sofferenze della madre, ma al quale ora lei si trovava costretta a rinunciare in cambio della libertà.
Fu una scelta difficile, la sua, forse la più impegnativa della sua vita, che lasciò il segno anche nei suoi testi. Ancora dieci anni dopo, la poetessa ricorderà il suo “grembo pieno di colpa”, e la nuova, duratura storia d’amore con il regista e scrittore Ebrahim Golestan non le permetterà certamente di dimenticare l’accaduto.
Con tutto ciò, i primi passi di Forough nel mondo della poesia, all’inizio degli Anni Cinquanta, furono un terremoto per tutta la cultura iraniana e islamica in generale. I suoi contenuti sentimentali, spesso erotici, espressi in una forma incisiva che riprendeva il “ghazal” nella lunghezza ma non nello schema metrico, segnarono l’inizio di una nuova stagione poetica nel paese.
Se Nima, infatti, aveva aperto uno spiraglio nella ferrea tradizione dei lirici iraniani, che tanto erano piaciuti anche a Goethe e, in anni più recenti, a Garcia Lorca, Forough trasformò quello spiraglio in una voragine, nella quale immerse tutte le ferite e le lacrime di una vita.
“Il fine di tutte le forze è giungere, / giungere all’origine luminosa del sole / e calare nella percezione della luce”, è così che recitano i versi di È solo la voce che resta, parte della prima delle cinque raccolte poetiche della giovane persiana. In pochi anni la sua fioritura letteraria fu straordinaria, accompagnata anche da un grande interessamento per l’Occidente e l’Europa in particolare (Forough tradusse molti lirici tedeschi nell’inverno del ’59), viste come altrettante fonti di ispirazione. Tra scandali, provocazioni e accuse provenienti dallo stesso ambiente nel quale era cresciuta, Forough seguì la sua rotta fino al 1967, anno in cui la sua vita e la sua poesia furono bruscamente interrotte da un mortale incidente automobilistico.
È difficile dire fino a che punto la poesia persiana contemporanea sia debitrice nei confronti di questo grande maestro (essendo il sostantivo usuale, converrebbe volgere “questo grande maestro” al femminile), ma è altrettanto evidente che la storia di Farrokhzad porta con sé un messaggio che trascende l’aspetto letterario e poetico. La condizione della donna nel mondo islamico, infatti, è tema sul quale molto si è scritto e ancora più si è detto nel dibattito politico e culturale degli ultimi anni, ma, a volte, ciò che dimentichiamo è che il primo vero modo per essere uomini e per essere donne, al di là di quello che la cultura ci può imporre, è proprio la capacità di esprimere emozioni e sentimenti senza censurare la loro forza. Solo da questo proviene la dignità più profonda di un uomo e di una donna.
Roberto Zambiasi
Bibliografia
Bausani A., Il pazzo sacro, Luni Editore, Milano-Trento 2000
Forough Farrokhzad, È solo la voce che resta – Canti di donna del Novecento persiano, a cura di Faezeh Mardani, Aliberti Editore, 2009
Hafez, Il libro del coppiere, a cura di C. Saccone, Luni, Milano-Trento, 1998
Meisami J. Scott, Persian medieval court poetry, Princeton University Press, Princeton, 1987
Rumi, Poesie mistiche, a cura di A. Bausani, BUR-Rizzoli, Milano, 1990
Saccone C., Viaggi e visioni di re sufi e profeti. Storia tematica della letteratura persiana, Luni Editore, Trento-Milano, 1999
Link:
http://www.incontroallapoesia.it/poesie-Rumi
Immagine:
http://villaggiogiovane2010.wordpress.com/2011/08/07/laltra-faccia-delliran-di-mania-mehrabi-87/