Negazione (Verneinung): “Processo attraverso il quale il soggetto si difende negando i suoi pensieri, sentimenti e desideri rimossi.”Quante volte abbiamo detto: “Non mi piace.”/ “Non l’ho fatto.” / “Non sono stato io.” / “Non mi interessa.”? Quante volte questo non era vero? Mentite se non ammettete almeno a voi stessi, almeno nel silenzio in cui state leggendo queste righe, che davvero volevate dire il contrario. Freud lo sapeva, e con lui Lacan e Orlando e molti e molti altri. E probabilmente, ora che ci state facendo attenzione, anche voi, inconsciamente, lo sapevate già.
Detto questo, non ho la pretesa di spiegare cosa sia la negazione o il rimosso o come esso riaffiori attraverso la prima. Non è decisamente il mio campo. Perciò mi limiterò a dire ciò che è ormai, quasi, una conoscenza di massa: la negazione (che è prima di tutto una negazione linguistica) è un riaffioramento del rimosso. La sua struttura può essere vista come quella di una frazione in cui al numeratore abbiamo la negazione (non) e al denominatore l’emersione del rimosso (ho fatto/ mi piace/ mi interessa). State provando a contare quante volte avete negato invece di affermare? Ammetto di aver scansionato molte delle mie relazioni e, con il tempo che avanza e il passato che diventa sempre più (apparentemente?) oggettivo, posso ragionevolmente affermare che l’ho fatto decine e decine di volte.
Il punto è qui: io ho detto tutte queste negazioni, pur non essendone consapevole, ma, per fortuna, non ne è rimasta quasi alcuna traccia. Tuttavia, gli scrittori, che sono umani e quindi hanno anche loro un grandioso inconscio pronto a emergere, hanno immortalato, più o meno consapevolmente, il fenomeno della negazione.
Uno degli esempi più grandiosi è offerto da Alla ricerca del tempo perduto e dall’amore che il protagonista non vuole ammettere, sebbene continui a chiedere informazioni, senta il bisogno di parlare dell’amata e al tempo stesso di negare l’interesse per lei, in un continuo di excusationes non petitae e denegazione.
Il massimo del paradosso è espresso dal poeta Pagliarani, nel componimento Se domani ti arrivano dei fiori: “Se domani ti arrivano dei fiori // sbagli se pensi a me (io sbaglio se // penso che il tuo pensiero a me si possa // volgere…”. Notiamo la lunga parentesi in cui l’autore si avvolge su se stesso, esprimendo un pensiero che ritorna ossessivo, si contraddice, si contorce. L’amata sbaglierebbe a pensare che è stato il poeta a mandarle dei fiori, ma lui stesso commette un errore quando si illude che la mente di lei, nel caso in cui davvero ricevesse un regalo simile, si volgerebbe a lui. La conclusione è che, probabilmente, i fiori sarebbero mandati da un avventore della trattoria, al quale l’autore ha parlato ossessivamente dell’amata. Il finale è cinico, lapidario. “Non devi amarmi se ti sbriciolo // su una tovaglia lisa: e non mi ami.” In queste parole il contrasto tra l’io e il tu è fortissimo; il tono è asciutto, disperato e privo di ogni alone sentimentale, come nella maggioranza delle poesie di Pagliarani. Nell’opera troviamo una doppia negazione. Siamo sicuri che l’ipotetico avventore non sia l’innamorato stesso? Un suo alter-ego? E se anche non si tratta di lui, sicuramente dietro la disillusione del suo ragionamento si cela la speranza che la donna pensi a lui. L’io vorrebbe davvero inviarle dei fiori e desidererebbe che lei li accogliesse e il suo pensiero corresse al poeta. Tutto questo è espresso in una poesia che si struttura come un paradosso, una sorta di delirio, contenuto in una forma prosaica, cinica.
Non è forse la stessa cosa che è compiuta da Goethe nella sua Ifigenia in Tauride? L’idea potrebbe sembrare paradossale dato che questa tragedia è sempre stata additata come un capolavoro di classicismo: i suoi principi seguono quelli canonici dell’equilibrio, della misura, con una lingua alta e omogenea, una struttura coesa. Questo è l’involucro, l’armatura che permette di veicolare un contenuto sovversivo. Quindi, nel processo della negazione, al numeratore poniamo lo stile e, sotto, la trama. Jauss sosterrà che, con il passare del tempo, è venuto meno il contenuto esplosivo, che poneva al centro il concetto di umanizzazione compiuto dalla protagonista e concentrava l’attenzione sulla donna, il suo ruolo fondamentale di portatrice della verità (Ifigenia non può, e non vuole, mentire), forse addirittura baluginando l’idea di una civiltà matriarcale. Il pubblico e la critica ha sempre considerato l’aspetto solo formale e ha fatto dell’Ifigenia goethiana il baluardo del perfetto classicismo, ignorando il contenuto.
Lo stesso rapporto tra forma e sostanza è rintracciabile in autori come Montale e, più di lui, Saba: la struttura metrica forte, il classicismo, addirittura i tratti arcaizzanti, non sono altro che il tampone per un contenuto sovversivo, fatto di epifanie, di incertezze, di momentanee apparizioni, di privazioni di senso e di vuoto. Il mondo non ha significato e la metrica ha la funzione di un balsamo, uno strumento sicuro per veicolare un messaggio difficile, un mezzo per il poeta stesso che cerca di dare senso e ordine ad un mondo che ne è così crudelmente privo.
Sereni riprenderà il tema dell’epifania e lo svilupperà in un pessimismo che attinge elementi sia da Montale che da Saba. La visione cupa di una realtà fatta di episodi sembra interrompersi nella poesia La spiaggia, in cui il negativo si apre alla speranza e sembra davvero che una risposta ci sia, esista. Il componimento si chiude con l’affermazione “Non dubitate.” E c’è un enjambement tra quel “non” e quel “dubitate”. Ebbene sì: è una negazione. Sereni prova ad essere certo, ma non riesce; il dubbio affiora proprio lì dove lui vorrebbe affermare il contrario.
Francesco Orlando ha studiato il tema della negazione nella letteratura e ha pubblicato nel 1987 un saggio: Illuminismo, barocco e retorica freudiana. Orlando sostiene che la Fedra di Racine sia strutturata su due piani, costituiti dall’affermazione della madre che non vuole ammettere di essere innamorata di Ippolito: non / amare. È ciò che la donna ripete: “Non lo amo.” Niente di più falso.
Prendiamo adesso un’altra opera teatrale: il Tartufo di Molière. Quanto è spregevole il protagonista? Per la critica è stato a lungo l’emblema dell’impostore, dell’ipocrita; eppure noi ci identifichiamo con esso. Questo avviene anche perché, come è stato più recentemente sottolineato, la sua figura ha i tratti del “guaritore”, cioè Tartufo si rende necessario alla famiglia per scopi egoistici ma il suo aiuto è reale e si basa su una grande capacità di scrutare dentro gli animi e comprendere le necessità. Il pubblico è diviso tra un sentimento di disgusto (non) e uno di identificazione (sono lui/ come lui).
Infine, come sostiene Orlando, lo stesso principio vale per la differenza tra la satira e il motto di spirito. Finché mi limito a prendere in giro un personaggio, posso ridere semplicemente di lui e questo si basa sul principio: “Io non sono lui”. Ma il motto di spirito va oltre: presuppone un’identificazione, un sentimento di affetto. Cervantes scrisse prima un racconto sul Don Chisciotte e, dopo, il romanzo; la differenza tra le due opere? Nel primo si è limitato alla satira, ma per produrre il secondo ha dovuto amare il suo personaggio, identificarsi con esso. Per questo, ancora adesso, la sua opera è letta e apprezzata e risulta così stranamente attuale.
La distinzione tra satira e motto di spirito non è poi diversa da quella fatta da Pirandello tra comicità e umorismo. E’ celeberrimo l’esempio della vecchia imbellettata: possiamo ridere di lei e del suo essere ridicola (comico) oppure possiamo andare oltre, domandarci i motivi per cui si è acconciata così, immedesimarci nella sua situazione, identificarci con lei (umoristico).
La negazione è alla base della nostra vita, delle nostre espressioni, dei nostri dialoghi e dei nostri monologhi. Quando rileggo pagine di diario scritte anni e anni fa, mi appaiono così limpidi gli esempi di riaffioramento di ciò che non riuscivo ad ammettere neppure a me stessa. Adesso sono lì, spiattellati su una pagina e io posso sorriderne. Ma non sempre è così semplice, così indolore.
Le opere letterarie non danno una risposta: non sono manuali, istruzioni per l’uso, verità rivelate. Mettono solo a nudo chi siamo, tutto ciò che siamo. Persino il nostro inconscio.
Federica Avagnano
Bibliografia
Francesco Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Einaudi, 1987
Pier Vincenzo Mengaldo (a cura di), Poeti del novecento, Einaudi, 1989
http://physislog.net/2010/10/07/negazione-rinnegamento-rimozione-freud-e-lacan/
Immagine
http://www.ilgiornale.it/news/interni/poeta-prepotente-spia-ecco-trib-dietro-sbarre-948030.html