Generalmente le tipologie di etica vengono divise in due grandi rami definiti su base strutturale: etiche deontologiche ed etiche consequenzialiste.
Le prime pongono l’accento sull’agire etico in sé, da valutare secondo prescrizioni di validità assoluta (siano queste d’origine rivelata, come per la morale cristiana, o razionale, come gli imperativi categorici kantiani) nella loro articolazione intrinseca comprensiva di intenzioni (o fini ideali), mezzi e conseguenze (o fini conseguiti); le seconde pongono invece l’accento sulle conseguenze dell’agire in quanto estrinseche rispetto all’agire medesimo, da valutare dunque isolatamente rispetto alle altre componenti dell’azione (ovvero intenzioni e mezzi) e secondo un criterio quantitativo di felicità apportata.
La discussione di questi due modelli necessiterebbe trattazioni molto ampie, e molte ve ne sono state nel corso degli anni, ma in questa sede vorremmo concentrarci piuttosto su una distinzione basata su tutt’altro criterio, e che potremmo, semplificando, esprimere come quella tra etiche dogmatiche (o non ragionate) ed etiche critiche (o ragionate).
Ad un primo sguardo potrebbe sembrare che tale divisione ricalchi in fondo quella che si è già nominata, da una parte principi assoluti e dall’altra valutazioni contestuali, e così sarebbe se adoperassimo come discrimine l’oggettività strutturale, mentre il criterio che vogliamo qui mettere in gioco concerne piuttosto l’esperienza intellettuale soggettiva dell’etica di ciascuno.
Veniamo ora alla tesi, già espressa nel titolo: un’etica dogmatica è meno efficace di un’etica critica. L’idea non è certo una novità; se guardiamo all’Eutifrone di Platone, infatti, è esattamente quel che troviamo: Socrate contesta al sacerdote Eutifrone la denuncia del proprio padre per reato d’omicidio. La contestazione tuttavia non riguarda il contenuto etico di Eutifrone, in sé ineccepibile (salvo per un ultratradizionalista che anteponesse il diritto sovrano del padre sul figlio alla pubblica giustizia), bensì il percorso intellettuale che lo guida ad operare tale scelta, ovvero la sua esperienza soggettiva dell’etica. Eutifrone asserisce di compiere un atto sacro accusando il padre, ma, come mostra nello svolgersi del dialogo, è incapace di render conto razionalmente dei concetti di cui si serve, perché si basa su un’etica dogmatica, la cui autorità è garantita per procura dall’autorità riconosciuta alla tradizione, essendole dunque estrinseca.
Prendiamo un altro esempio, meno specifico: la morale cattolica nella società italiana contemporanea. A tutt’oggi la stragrande maggioranza della popolazione cresce in un sostrato culturale quanto meno genericamente cattolico, e la sua esperienza soggettiva dell’etica ne è chiaramente condizionata: essa cresce ragionando grosso modo in base ai suoi dettami. Tuttavia il suo agire etico non ne è altrettanto condizionato: sembra quasi che quei principi siano perfettamente in grado di guidare il giudizio disinteressato ma vengano meno precipitando nel lassismo quando è in gioco un’azione interessata; anche qui nulla di nuovo: basti pensare al vecchio proverbio del prete che predica bene ma razzola male. Non bisogna tuttavia fermarsi alla superficie: perché questo avviene? Evidentemente perché ai dettami costituenti l’etica dell’implicato non è riconosciuto da questi sufficiente valore da permettere loro di porre il veto nei confronti dell’interesse che determina l’azione che li viola: non sono in grado di farsi guida del soggetto etico. Detto en passant, si badi che questo processo è esattamente ciò che determina il trapasso dalla morale al moralismo, più precisamente da un comportamento morale ad un atteggiamento moralista.
Analizzando questi due esempi notiamo una precisa caratteristica comune: in entrambi i casi abbiamo dinnanzi delle prescrizioni morali eteronome, ovvero il cui fondamento (letteralmente “legge”) è da esse separato, sia che esso sia immanente (la tradizione) che trascendente (la rivelazione divina). Razionalizzando il processo psichico che l’adesione (o piuttosto l’adesione mancata) ad esse sottintende otteniamo un’implicazione di questo tipo: “Seguire il valore x è giusto; dunque il valore x è giusto”, ma si tratta di un capovolgimento: in questo modo l’eticità di un valore è conseguenza dell’adesione, non l’adesione dell’eticità. Similmente si svolgeva il discorso nel citato Eutifrone, quando l’omonimo personaggio si ritrova dinnanzi alla seguente antinomia: “Ciò che è sacro è tale perché piace agli dei o piace agli dei perché è sacro?”; la prima possibilità è il caso di cui si è detto, rappresenta un’etica eteronoma, dogmatica, non ragionata, basata su un’autorità che non è la sua, per questo essa è così poco efficace: potremmo paragonarla ad un oggetto il cui baricentro giaccia fuori dall’oggetto medesimo, incapace dunque di reggersi in equilibrio senza la mano di Dio, degli dei, della tradizione che lo sostenga. La seconda possibilità è invece una tautologia: “Il sacro piace agli dei perché è sacro” è come dire “Il sacro è sacro perché è sacro”; ciò non implica errore, naturalmente, solo eccedenza dell’enunciato rispetto alla questione, che può dunque essere serenamente reciso dal rasoio di Ockham.
Fin qui siamo grosso modo rimasti alle conclusioni di Kant: la morale deve essere autonoma, avere il proprio fondamento in se stessa per essere efficace, poiché razionalmente la sua eteronomia equivale alla sua infondatezza, la sua infondatezza alla sua pragmatica inefficienza.
Come si è accennato, tuttavia, la distinzione che desideravamo qui proporre è tra etica ragionata (critica) e non ragionata (dogmatica), e non tra etica autonoma (che per Kant significa “etica razionale”) ed eteronoma; l’etica kantiana ha infatti grandissimi meriti, ma la filosofia e soprattutto la storia successive ne hanno mostrati ampiamente i limiti.
Nel pieno dell’epoca post-moderna sembra onestamente impossibile ricercare l’identità nell’identità, l’uguaglianza nell’uguaglianza, come aveva fatto, in tempi di maggior ottimismo quanto alla ragione umana, Immanuel Kant; quel che piuttosto ci è dato ricercare oggi è l’identità nella differenza, l’uguaglianza nella diversità: la ragione, alla stregua dell’essere aristotelico, è irrimediabilmente polivoca, non più unificabile in un solo tronco d’albero porfiriano.
Cos’è allora un’etica critica? È un insieme di principi che viene a definirsi nel corso dell’esperienza etica soggettiva di ciascuno secondo un criterio intellettuale, critico (rammentando che obiettivo primario d’una critica profonda sono sempre le questioni, ben prima delle risposte): non si dà mai una volta per tutte, perché le pratiche in cui la vita del singolo è implicata nel trascorrere del tempo mutano insieme al soggetto; non è organica o gerarchizzata aprioristicamente, poiché le sue parti, pur essendo inevitabilmente, costantemente interconnesse, si costituiscono e divengono in tempi e situazioni differenti, con criteri e fini differenti; non è neppure caotica, poiché la sua costituzione non corrisponde ad un affastellamento infinito di esperienze contraddittorie, né arbitraria, perché un esame critico sui risultati di differenti principi e comportamenti porta ad esclusioni ed inclusioni, per l’appunto, ragionate (potremmo quasi dire “per trials-and-errors”).
Quel che emerge dal soprastante insieme di definizioni negative non è una ricetta infallibile per l’etica del nuovo millennio, e neppure una ricetta, in verità; il suo modello teoretico non è la perfezione dell’umanità, utopistica già solo nel nome, ma la sua perfettibilità. Un obiettivo certo ben magro, se paragonato ai grandi progetti etici del passato (si pensi alla frase di Gesù “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro ch’è nei cieli”, ma anche a tutte le ideologie dell’uomo nuovo che hanno attraversato il Novecento), ma come ci ha insegnato il fallimento dei grandi massimalismi, e come ben prima del loro fallimento aveva scritto Karl Marx: “È volgare spregiare una cosa buona perché è solo un bene limitato e non tutto il bene in una volta”.
Perché dunque, in definitiva, un’etica critica di questo tipo è più efficace d’un’etica dogmatica? Perché si costituisce non più come sistema astratto il cui fondamento giaccia dentro o fuori di lei, ma come agire etico del singolo in cui teoresi e prassi sono costantemente in stato di reciproco contatto, il cui presupposto non sia dunque il vertice di una gerarchia, ma il suo stesso farsi: così questo ethos, questo agire etico, si configura non come oggetto d’adesione, ma come vera e propria cornice dell’azione stessa del singolo, sgombrando così il campo da ogni arbitrarietà nel passaggio dalla teoresi alla prassi.
Bernardo Paci
Bibliografia:
Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Ed. Laterza, Roma-Bari 1997.
Jean-François Lyotard, La condizione post-moderna, Ed. Feltrinelli, Milano 2002.
Karl Marx, Scritti politici giovanili, Ed. Einaudi, Torino 1950.
Platone, Eutifrone in Platone, Dialoghi filosofici (vol. I), Ed. Classici UTET, Torino 1970.
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