Il Sofista vede a confronto Teeteto con un personaggio denominato semplicemente come “straniero di Elea”; prendendo le mosse dal tentativo di definire la natura del sofista, il dialogo evolve in una ricca analisi della questione ontologica attraverso il pensiero dei diversi filosofi naturalisti e degli eleati fino alla nuova proposta platonica. Per semplificare, si distinguono le dottrine dei predecessori in quattro gruppi, affrontati e confutati uno per uno: monisti, materialisti, pluralisti, idealisti.
I monisti vengono identificati come coloro che asseriscono che “l’essere è uno”, il che costituisce evidente riferimento alla dottrina parmenidea; tuttavia così facendo stanno in effetti assumendo l’esistenza di almeno due principi, l’essere e l’unità, di modo che, qualsiasi affermazione simile essi tentino di fare, si porranno in contraddizione da sé. Con metodo simile è trattato il pensiero dei pluralisti, di cui si discute, per non complicare il discorso oltre il necessario, un esempio dualista: se qualcuno dichiara che i principi sono due, ad esempio il moto e la quiete, certo se gli sarà domandato se questi esistano non potrà negarlo, ma allora dovrà ammettere che i principi sono tre, i due nominati e l’essere; in particolare, muovendo dal fatto che ciò che è in quiete non può essere in moto e ciò che è in moto non può essere in quiete, l’esistenza di un terzo principio, già di per sé necessario per poter affermare che moto e quiete esistano, diviene necessaria due volte, poiché esso dovrà “abbracciare” gli altri due e fungere da termine medio tra loro, che in sé non possono intrattenere relazioni dirette; quali saranno tuttavia i rapporti che l’essere intrattiene rispettivamente con la quiete e con il moto? Considerato che da una parte gli idealisti (che come vedremo comprendono per un verso gli eleati e per un altro i sostenitori della prima versione, quella “ingenua”, della teoria delle idee) asseriscono che l’essere sia immobile mentre i materialisti (da Platone usualmente identificati perlopiù con gli eraclitei) dicono il contrario, la domanda è pregnante, e pone il problema di comprendere che cosa sia l’essere, benché tale compito sia, riconosce lo straniero, estremamente arduo, tanto quanto lo è comprendere cosa sia il non-essere.
Lo straniero rileva qui innanzitutto come nei discorsi noi siamo soliti dire molte cose di una sola (di un uomo non si dirà solo che sia uomo, ma anche che sia buono, giusto etc.), e immagina quel che gli direbbero taluni, che designa come ὁψιμαθε̃ις (traducibile grosso modo come “vecchi che imparano tardi”), che, limitati, subito gli obietterebbero che non si può dire che l’uno sia molti o che i molti siano uno; il riferimento è verosimilmente (come molto ben argomentato da Adorno) ad Antistene, discepolo di Socrate e maestro di Diogene di Sinope, poi considerato fondatore della scuola cinica, sostenitore d’una prima forma di nominalismo (“vedo il cavallo, non vedo la cavallinità”), che pare sostenesse che solo la tautologia sia logicamente corretta (per l’appunto, “l’uomo è l’uomo”, ma non “l’uomo è buono”). Lo straniero si domanda allora se si debba pensare che le cose siano tutte separate e non intrattengano rapporti tra loro, o se esse invece comunichino tutte l’una con l’altra indiscriminatamente, o se invece certe comunichino con certe ma non con altre. Se fosse vera la prima ipotesi, allora il moto e la quiete non parteciperebbero dell’essere, e dunque non esisterebbero; se fosse vera la seconda invece, sarebbe lecita ogni contraddizione, il moto potrebbe essere in quiete e la quiete in moto, ad esempio; si sceglie allora la terza, via media tra le due.
Attraverso un’analogia con il linguaggio, in cui i rapporti tra le lettere sono indagati attraverso una scienza ben precisa, ovvero la grammatica, si giunge infine a parlare della dialettica, che corrispondentemente rappresenta la scienza che indaga tali rapporti di partecipazione (μετέξις) ben precisi tra le unità e le molteplicità (cui corrispondono, sul piano linguistico, analoghi rapporti di predicazione, il che diverrà fondamentale nel pensiero di Aristotele); le quali si mostrano chiaramente, a questo punto, come relative, poiché, come si è detto sopra, di ciascuna cosa si dice sotto certi aspetti che è una e sotto altri che è molte (la distinzione presuppone naturalmente che un intero non sia riducibile alle sue parti): per la precisione, ogni unità relativa (idea o genere) è tale in quanto identica a se stessa, ma è molteplice in quanto in rapporti di diversità con tutte le altre, di modo che le unità esistono in sé in quanto unità (dunque le idee esistono) ma sono indagabili solo attraverso le relazioni che intrattengono tra loro, le quali pure non coincidono con l’intero rappresentato dalla detta unità. La dialettica come scienza di unire e dividere ragionando intorno all’essere è allora riconosciuta come l’attività propria del filosofo. Ciò manifesta inoltre la natura essenzialmente quantitativa dell’approccio di Platone all’ontologia: non vi sono differenze qualitative marcate tra i generi, centrale è la loro estensione, così come a livello epistemologico si indagano le relazioni ma è impossibile conoscere le essenze, in maniera tale che tutte le proposizioni vere hanno lo stesso valore e non ve ne sono di qualitativamente più essenziali nel parlare di un certo oggetto; del tutto opposto è invece l’approccio di Aristotele.
Nelle pagine successive si aggiungono ai tre generi sommi precedentemente definiti l’identico e il diverso (come ciò avvenga riteniamo sia già stato chiarito dal precedente paragrafo), e ancor più importante si esplicita quanto di nuovo attraverso tali ragionamenti si è compreso riguardo al non-essere, che non va allora tutto insieme preso e rifiutato come indicibile, come fanno gli eleati, ma distinto in un non-essere da intendersi come ciò che propriamente non esiste e in un non-essere coincidente con il diverso, con l’essere altro in maniera determinata, e quindi, comunque, essere; ciò è reso possibile anche perché essere e identico non vengono più fatti coincidere, di modo che la differenza può compiere il suo ingresso nell’indagine filosofica, ma facendolo “in maniera determinata” non la rende impossibile come nell’eraclitismo, ma anzi le permette maggior completezza; si giunge inoltre a sostenere, sulla medesima linea argomentativa, non più che l’essere sia immobile, ma che anzi esso sia “capacità di agire e patire”, di modo che da una parte i fenomeni sono salvati, mentre nella dottrina parmenidea essi in quanto molteplici e mutevoli costituivano parte del non-essere, dall’altra la teoria delle idee viene “riformata”, nel senso che esse non rappresentano più “oggetti intelligibili” dalle caratteristiche simili all’essere parmenideo, ma generi interessati dalla dialettica uno-molti non del tutto immobili, perché patiscono in certa misura la conoscenza, e se non la patissero non sarebbero affatto. Vi è poi una frase direttamente conseguente dal discorso fatto, che se pure non è essenziale in termini di metafisica lo è in termini di metodo: “molto è l’essere, infinito il non-essere”, da intendersi nell’ambito di quell’indagine compiuta sulle relazioni che le idee e i generi intrattengono tra loro come constatazione dell’impossibilità di avere conoscenza esaustiva e conclusiva delle idee medesime, poiché appunto molte proposizioni positive esistono nei detti rapporti di partecipazione, ma infinite ve ne sono di negative.
Resta un ultimo punto da sottolineare, essenziale in ispecie per comprendere le differenze più profonde tra Platone ed Aristotele: per Platone la differenza assoluta non esiste. Nel suo pensiero per quanto due idee siano differenti (come il moto e la quiete) ci sarà sempre un criterio di unificabilità (nella fattispecie l’essere) che consenta di considerarle insieme come unità; questo perché per Platone la struttura originaria, l’esistenza genuina del reale è rappresentata dall’unità, mentre il molteplice ne deriva, è sempre secondo rispetto all’uno (questo diviene ancor più manifesto nel Filebo, nel Timeo e nelle dottrine non scritte), e dunque la sua esistenza deve sempre essere giustificata. Al contrario, Aristotele ammette la molteplicità come originaria, “rispetta le differenze”, e dunque non ha necessità di giustificarla, poiché essa è, semplicemente, data, ed è questo a rendere incompatibili le rispettive dottrine categoriali: per Aristotele l’essere non è un genere, non unifica in sé tutta la realtà in maniera univoca, ma è per sua natura polivoco, i suoi diversi significati non sono riducibili l’uno all’altro, ma esistono originariamente come distinti, e i significati dell’essere in quanto essere non sono altro che le categorie.
Bernardo Paci
Bibliografia:
F. Trabattoni, Platone, Carocci Ed., Roma 2010.
F. Adorno, La filosofia antica (vol. I), Feltrinelli Ed., Milano 1961.
Platone, Sofista in Platone, Dialoghi filosofici (vol. II) Ed. Classici UTET, Torino 1970.
Immagine:
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