Il Teeteto è uno dei dialoghi che maggiormente gettano luce sulla concezione epistemologica di Platone; ciò potrebbe apparire ben strano, ad un primo sguardo, dal momento che vi manca del tutto la teoria delle idee, ma, come ci auguriamo risulterà chiaro dopo l’analisi che seguirà, si tratta di una “assenza parlante” il cui scopo è proprio quello di dimostrare la necessità dell’esistenza delle idee al fine di studiare le possibilità e i limiti della conoscenza, il che avviene mostrando come ciò risulti impossibile senza fare uso della teoria delle idee medesima (il dialogo infatti, avendo messo da parte tutte le definizioni proposte di “conoscenza”, si conclude con un apparente nulla di fatto).
Nel dialogo che avviene tra il giovane Teeteto e Socrate, il primo viene invitato a discutere per ricercare la definizione della conoscenza, e la prima soluzione da lui proposta è che essa sia sensazione (tesi da ricondurre al soggettivismo di Protagora, come esplicitato in 151e, e al mobilismo universale di stampo eracliteo che per Platone ne è causa diretta, come chiaro da 153e); Socrate tuttavia dimostra come non sia possibile operare tale riduzione, dapprima essenzialmente con due argomenti: innanzitutto se la conoscenza fosse sensazione tutti gli uomini dovrebbero essere egualmente sapienti, e non lo sarebbero più degli animali, dal momento che anch’essi hanno sensazioni, in secondo luogo si avrebbe conoscenza solo in presenza di una sensazione attuale, e la memoria non costituirebbe conoscenza; tuttavia il perché la conoscenza non possa essere ridotta alla sensazione, e non ne rappresenti neppure la parte fondamentale, risulta maggiormente argomentato nelle pagine seguente. Da questa parte del dialogo infatti emerge come la conoscenza debba avere carattere precipuamente intellettivo piuttosto che sensibile, il che in Platone (ma ciò è valido anche per quanto riguarda Aristotele) implica che essa debba focalizzarsi sugli universali piuttosto che sui particolari (cfr. 186d); l’uomo li conosce indirettamente, attraverso i sensibili che divengono rimando, tramite la dottrina della reminiscenza, agli intelligibili, in quanto partecipando della loro essenza debbono in qualche misura “mostrarli” qui si inscrive necessariamente una visione categoriale, poiché la conoscibilità dei sensibili è fatta sottostare alle strutture intelligibili che possiamo riconoscere nell’esperienza, e che ad essa non sono riducibili (analogamente nella fenomenologia husserliana non si dà conoscenza empirica senza che vi sia a monte il “contorno” dell’universale). Parallelamente per Platone ad una conoscenza di tipo intellettivo, e dunque non sensibile, deve corrispondere un soggetto conoscente a sua volta non sensibile: l’anima, che conosce di per sé facendo uso del pensiero (διάνοια), gli intelligibili e conosce per mediazione del corpo i sensibili; tuttavia i dati dell’esperienza giungono all’anima già organizzati secondo l’intuizione categoriale, la medesima che ci permette di ricondurre, ad esempio, un colore ed un suono empiricamente eterogenei ad un medesimo oggetto: da questa discenderanno concettualmente le categorie di Aristotele e i trascendentali della metaphysica generalis medievale, così come le forme sintetiche a priori dell’intelletto kantiano. Tale facoltà di analisi e sintesi dell’esperienza dunque, riconosciuta come propria dell’anima, non è un senso, ma opera sia prima che dopo i sensi: laddove la vista permette non di vedere il colore, ma che c’è il colore, l’anima studia invece il colore in sé, ne ricerca l’essenza (οὐσία). In tal senso l’analisi della visione categoriale dell’esperienza diviene preliminare alla teoria delle idee, ovvero all’indagine rivolta agli universali in sé.
Cogliamo l’occasione in chiusura per evidenziare un problema, maggiormente presente nel Sofista, ma già qui emergente: per Platone, e per i platonici in generale, non esistono idee “negative” (non vi sono ad esempio l’idea di ingiusto o l’idea di non-uomo): può allora darsi una relazione tra intuizione categoriale e non-essere?
In conclusione, riprendendo le fila del discorso, diviene chiaro come Platone intenda l’identità come inscritta nella differenza: nell’oceano di differenze costituito dal mondo sensibile ci è dato di riconoscere le unità (identiche) relative ad esse trascendenti; l’esperienza non deve dunque essere condannata come falsa conoscenza e messa da parte, ma utilizzata coscientemente come mezzo per un fine ulteriore, rappresentato appunto dalla conoscenza intellettiva.
Bernardo Paci
Bibliografia:
F. Trabattoni, Platone, Carocci Ed., Roma 2010.
F. Adorno, La filosofia antica (vol. I), Feltrinelli Ed., Milano 1961.
Platone, Sofista in Platone, Dialoghi filosofici (vol. II) Ed. Classici UTET, Torino 1970.
Immagine:
https://notaminima.wordpress.com/2012/11/22/hablar-para-ser-escuchado/