Il brutto, quando studi per un esame, è che ti sta intesta. Quando ti va bene, anche durante l’esame, altrimenti solo il resto del tempo. La cosa continua in genere per un po’ di giorni dopo la prova ma ormai, lo sai, è già iniziato quel triste processo di deframmentazione per cui (quasi) tutto finirà nel dimenticatoio – e in genere è in questi momenti che mi pento di non aver scelto Matematica. Quel “quasi” è ciò a cui ti aggrappi per il futuro, il resto è il motivo per cui le facoltà umanistiche sono svalutate. Intanto però, mi dicono, si diventa “belle persone”. Purtroppo sono convinta, come Zoolander, che la vita non sia solo “essere belli belli belli in modo assurdo” quindi devo fare qualcosa per dimostrare che, anche se ti iscrivi a Lettere, non passi le tue giornate a fare trainspotting*.
La sera, in compenso, guardi Trainspotting, girato nel 1996, che parla di un gruppo di ragazzi di Edimburgo alla fine degli anni ’80 …e ci vedi il tuo esame. Controlli la custodia del dvd: non ci sono antropologi dietro. Eppure il film, come il romanzo [Welsh, 1993], tocca vari temi dell’antropologia. Dell’antropologia sociale urbana, per l’esattezza. I temi trattati dalla corrente detta public anthropology, come l’etnografia che hai letto per l’esame. Tu guarda il caso! Non preoccupatevi se non l’avete visto, nei primi dieci minuti, oltre ad una brillante spiegazione della tossicodipendenza ed alla maggior concentrazione di scene sgradevoli, c’è tutto quello che serve.
“La gente pensa che si tratti di miseria, disperazione, morti, merdate del genere. Che pure non vanno ignorate…”
Senza dilungarsi sulla (breve) storia dell’antropologia urbana, sappiamo che dai suoi primordi, nei ruggenti anni venti, la disciplina si è trovata a trattare la droga. Gli antropologi, più o meno da quando si sono resi conto che non tutti i popoli “si evolvono” seguendo le stesse tappe, hanno iniziato a prestare attenzione alle situazioni, cercando le cause nel contesto. Poi, certo, c’è anche la “questione di fibra morale” (citazione, sempre dai primi dieci minuti del film) ma di quello si occupano altre discipline. Il punto è che quello che dice il protagonista in quella frase non è sbagliato, affatto. Ciò che ci interessa però non è come si arrivi alla droga, ma il contesto, che non è solo di miseria, disperazione e morti.
Il look del protagonista ricorda la “sottocultura” punk del decennio precedente. Ammesso e non concesso che si possa parlare di “sottocultura” dal momento che “cultura” è, per gli antropologi, qualsiasi espressione o prodotto umano, condiviso, trasmesso o rielaborato, sia pure esso poco esplicito. Riguardo il concetto di cultura, cardine della disciplina e oggetto primo degli studi, gli antropologi stanno ancora lavorando e sono lieti di informare che sperano di non finire mai. La prima definizione risale ai tempi in cui gli studiosi passavano le loro giornate “a tavolino” e possibilmente avevano la barba, lunga. La prima versione considerata “anthropologically correct” è di Edward Burnett Tylor e risale alla fine dell’ ‘800 ma per una lettura più moderna si può vedere tranquillamente la voce dell’enciclopedia Treccani. Qui abbiamo sintetizzato le quattro invariabili, o universali, della definizione raccolte dall’antropologa e docente Annamaria Rivera. Comunque, tornando al “movimento” punk: questo si sviluppò in Inghilterra negli anni ’70, era caratterizzato dalla “contestazione” sociale, quindi, per forza di cose, “politica”. Verso la metà del film il protagonista fa una tirata contro la Scozia, l’essere scozzesi e il governo. Lo stato viene chiamato in causa anche in quanto fornitore della maggior parte della droga consumata dai ragazzi e, poi, quando il protagonista accetta di entrare in un programma di riabilitazione piuttosto che andare in carcere. Programma che non funziona.
“Voglio uscirne. Una volta per tutte.” “L’ho già sentita questa storia” “Il metodo Sick Boy” “Ah, con lui ha funzionato, eh?”
Un giovane antropologo allora è proprio costretto a farsi delle domande. Perché il programma di riabilitazione fallisce? Come è possibile che senza problemi vengano sottratti dei medicinali dal programma di salute nazionale? Sarebbe necessario più controllo? O forse sarebbe più proficuo un atteggiamento meno costrittivo? Il proibizionismo del resto non si è rivelato troppo efficace.
“Ci saremmo sparati la vitamina C, se l’avessero dichiarata illegale.”
O forse il problema non sta nel controllo, ma nelle opportunità. Nelle prime scene si vede l’appartamento de “la Madre Superiora”, lo spacciatore di fiducia: nel muro del salotto al posto di una porta c’è …un buco. Adatto alla casa di un eroinomane incallito ma come può lo stato lasciare che i suoi cittadini vivano in queste condizioni? Come può un organismo non curarsi della propria malattia? Come può un amorevole padre di famiglia non notare… un buco sul corpo del figlio? …forse allora non sono gli individui che peccano, forse è la società.
“La nostra sola risposta fu di continuare a mandare tutto a farsi fottere. Accumulare miseria su miseria…”
Abbiamo detto però che la cultura è rielaborata: i punk sono un movimento di dissenso e ribellione. La società non piace, gli individui reagiscono. Ma cosa possono fare? Alla fine degli anni ’60 Erving Goffman, disse delle cose tanto vere quanto… scontate. Peccato che nessuno si fosse preso la briga di dirle ad alta voce. Noi (e intendo noi esseri umani, che ci muoviamo veloci nelle nostre città occidentali) ci trattiamo vicendevolmente come “piccoli dei”. Ci rivolgiamo agli altri con rispetto e deferenza interpretando i nostri ruoli, più o meno consci di tutto questo che ci accade attorno, o comunque, per la maggior parte del tempo, dandolo per scontato. Quando però qualcuno non viene trattato come un “piccolo dio” ce ne accorgiamo e ci indigniamo – forse. I diritti civili, i diritti umani, l’Africa e Guantanamo. I cinesi sfruttano nelle fabbriche, gli americani sono capitalisti senza scrupoli e i russi omofobi che non si rendono conto di essere sotto dittatura. Menomale che siamo nati in Europa! …salvo poi lamentarci che tutto fa schifo anche qua.
Lo “schifo” globalmente diffuso e politicamente accettato, è chiamato dagli antropologi “violenza strutturale” – la cui definizione è stata formulata dagli antropologi statunitensi Nancy Scheper- Hughes e Paul Farmer, esponenti fondanti della succitata public anthropology. La violenza strutturale è la violenza esercitata, a tutti i livelli e in tutti i modi immaginabili, dalla società sull’individuo. Esso stesso però fa parte della società ed esercita la violenza sugli altri, senza rendersene conto: anche fare finta di non vedere i senzatetto è violenza strutturale. D’altro canto non è facile vedere questo meccanismo come esterno da sé. Ad esempio: gli antropologi americani Philippe Bourgois e Jeff Schoenberg, nella loro foto-etnografia su un gruppo di homeless eroinomani della periferia di San Francisco, riportano come nessuno di loro accusasse la società del fallimento dei loro tentativi di disintossicazioni e spesso nemmeno per la loro condizione di dipendenza o di senzatetto. Accusavano solo sé stessi – o tutt’al più la guerra in Vietnam, i dottori che non capivano e gli assistenti sanitari che radevano al suolo i rifugi. Questa dimensione della sofferenza, questa risposta alla violenza strutturale è psicologica e, se possibile, più violenta.
Misia Zoccoli
* “Fare trainspotting”, come illumina la pagina di Wikipedia del romanzo, era una pratica frequente tra i disoccupati ad Edimburgo che, per passare il tempo, guardavano i treni passare.
Bibliografia
Jeff Schoenberg, Philippe Bourgois (2009), Righteous dopefind; trad. it. Reietti e fuorilegge, Roma, Deriveapprodi, 2011.
Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 2011 (3ed.).- Nancy Scheper-Hughes, Philippe Bourgois (2004), Introduction: Making Sense of Violence in Violence in War and Peace: an Anthology, a cura di Nancy Scheper-Hughes e Philippe Bourgois, Oxford.
Annamaria Rivera, René Gallissot, Mondher Kilani, L’imbroglio etnico, Bari, Edizioni Dedalo, 2012.
http://serust.tumblr.com/post/6837567017/mark-renton-trainspotting