Il pensiero del secondo Wittgenstein: lo Sprachspiel

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“Il concetto di gioco è un concetto dai contorni sfumati”.

La prima fase del pensiero di Wittgenstein si fonda sulla picture theory of language, ovvero la teoria raffigurativa del linguaggio che intendava la proposizione (Satz) come immagine (Bild). In quest’ottica il linguaggio che usiamo ha un significato solo nella misura in cui raffigura gli “stati di cose”, cioè le relazioni tra le cose. Se io dico: “Un bambino gioca una palla”, la mia frase ha un significato, poiché sto raffigurando uno stato di cose e i termini che uso hanno un significato che io riesco a comprendere. Se invece io dico: “Un trontoclo beve”, sto senz’altro dicendo qualcosa che non ha significato, poiché “trontoclo” non raffigura nessuna cosa esistente. Nel Tractatus logico-philosophicus leggiamo: “La proposizione è un’immagine della realtà”. L’idea, quindi, è che vi sia un rapporto di isomorfismo – di uguaglianza di struttura – tra la proposizione e i fatti che essa raffigura. Tornando all’esempio del bambino che gioca a palla, questo vorrebbe dire che, come io dico: “Un bambino gioca una palla”, così, se la mia frase è vera, posso trovare effettivamente un ente designato dal nome “bambino” che compie l’azione descritta dal verbo “giocare” con un ente designato dal nome “palla”. Qualunque frase che contenga elementi che non designano niente nel mondo reale, quindi, è insensata, non è né vera né falsa, è, cioè, priva di significato. Tali sono i problemi filosofici della metafisica, per esempio quelli relativi all’esistenza di Dio: non esiste, infatti, nessun ente del mondo concreto che possiamo identificare come designato dal nome “Dio”.

Tuttavia, negli anni ’30 Wittgenstein abbandonerà questa sua posizione, considerando seriamente il fatto che una stessa parola non ha un significato unico, ovvero la sua denotazione: la funzione del linguaggio non è quindi solo rappresentativa ma il significato dipende stettamente dal contesto in cui usiamo le parole. La riflessione di questa seconda fase del pensiero di Wittgenstein ci è giunta attraverso la raccolta delle Ricerche filosofiche.

A titolo di esempio, Wittgentein propone di considerare la barra conservata a Parigi che funge da campione per l’unità di misura “metro” e chiedersi: che lunghezza ha quel metro? Di fatto non possiamo chiederci questo, perché il metro campione di Parigi non è un oggetto trovato in natura che si può misurare. Esso è il sistema di riferimento, e non si può prescindere da esso per misurare: non possiamo uscire dal sistema di riferimento. Il metro campione non lo possiamo considerare un oggetto con una lunghezza: è invece il modo con cui costruiamo le proposizioni di misura. Stesso discorso vale peri colori primari. Essi infatti non sono oggetti ma sono modi di ordinare l’esperienza, non sono cioè cose che abbiamo visto e appreso, ma metodi con cui abbiamo imparato a vedere oggetti. Non avrebbe quindi senso la domanda: “Di che colore è il rosso?”. Il metro campione e i colori primari sono due esempi di sistemi di riferimento, sistemi che usiamo come metodo per conoscere il mondo, e non ha senso applicare il metodo a se stesso. Ciò che interessa a Wittgenstein è che la stessa cosa vale per la grammatica: non ha senso utilizzare il linguaggio per spiegare le strutture mediante cui esso viene utilizzato, poiché ciò presuppone l’utilizzo di quelle stesse strutture che si vorrebbero descrivere.

 La grammatica viene definita nel nuovo pensiero di Wittgenstein come il risultato di un addestramento, una pratica dei giochi linguistici. Nel paragrafo 1 delle Ricerche filosofiche Agostino considera solo l’impiego ostensivo (cioè denotativo) delle parole: a una parola “mela” è associato un oggetto, cioè l’oggetto mela. Dice Agostino, citato da Wittgenstein: “Quando gli adulti nominavano qualche oggetto, e, proferendo quella voce facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo, e ritenevo che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla”. Era questo lo stesso errore compiuto da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus. Questo è infatti solo uno dei modi di utilizzare il linguaggio. Wittgenstein per chiarire questo punto propone l’esempio di un quadro raffigurante il pugile: lo stesso quadro a seconda del contesto cambia il suo ruolo e il significato. Infatti può ad esempio servire per far capire in che posizione occorre stare per combattere, oppure in che posizione stava il particolare individuo che è stato ritratto in quel momento, ecc.. Se prendiamo una frase come: “Tu mi piaci”, a seconda del contesto e del modo in cui vogliamo usare il linguaggio, troviamo che il significato cambia completamente: possiamo star comunicando a una persona una nostra impressione positiva o un nostro sentimento un po’ più profondo, oppure potremmo starla prendendo in giro – pensiamo a questa stessa frase usata dal tenente Hartman in Full Metal Jacket -, etc..

Il significato dei nostri enunciati dipende quindi dal “gioco linguistico” (Sprachspiel). Il gioco è un buon termine illustrativo dell’uso del linguaggio, in quanto evidenzia la natura non unitaria dei modi in cui possiamo utilizzarlo. Il concetto di gioco, infatti – dice Wittgenstein -,  “non è delimitato”: anche guardando tutti i giochi non si arriva per astrazione ad un concetto di gioco. Ogni gioco ha infatti delle sue regole proprie che noi accettiamo implicitamente giocando e che conosciamo se abbiamo pratica del gioco, o impariamo addestrandoci. Inoltre – elemento fondamentale – non si possono trovare delle regole fondamentali comuni a ogni gioco: le regole dei giochi non sono dedotte da una legge generale, né una tale legge può essere astratta o indotta dai vari giochi possibili.

Tuttavia I giochi, pur non avendo un qualcosa di comune, sono però “imparentati”, cioè hanno quelle che Wittgenstein chiama delle “somiglianze di famiglia”: per esempio tutti i giochi giocati su una scacchiera, oppure con una palla, hanno un elemento in comune. Nel paragrafo 71 delle Ricerche filosofiche Wittgenstein dice: “Il concetto di gioco è un concetto dai contorni sfumati”. Tutto ciò che si può fare per definire cosa si intende per “gioco” è fare esempi di diversi giochi, in modo che pian piano, attraverso paragoni, sorge un’idea di gioco. Allo stesso modo la filosofia si deve comportare con i giochi linguistici: deve mostrare i tipi diversi di giochi il più chiaramente possibile facendo emergere “nessi intermedi”, cioè collegamenti da quella che Wittgenstein chiama “visione perspicua” , ovvero la visione che considera insieme i diversi esempi di giochi linguistici. Dice infatti Wittgenstein nel paragrafo 130: “I giochi linguistici sono termini di paragone intesi a gettar luce attraverso somiglianze e dissomiglianze sullo stato del nostro linguaggio”, cioè, attraverso questa valutazione di esempi, emergerebbero somiglianze e differenze tra i vari esempi di giochi che ci permetterebbero di ricavare le sopracitate “somiglianze di famiglia”. Dai vari esempi di diversi giochi linguistici che la filosofia ha il compito di mostrare emerge infatti il “campione” che mostra i caratteri d’insieme degli oggetti e deve essere inteso come schema.

“Dall’esame di tante foglie si mostra lo schema di tutte le foglie, ovvero consideriamo la foglia come essere campione di tutte le foglie possibili” (paragrafo 73). L’idea di Wittgenstein è che da una serie di oggetti esemplari, si mantenga una certa forma, che, in alternativa a “campione”, potremmo anche chiamare “forma comune” ; una forma che, si badi bene, non è concreta, non è la forma di un oggetto esistente, ma è quanto accomuna una serie di oggetti, permettendoci di riunirli in una medesima categoria (come quella di “foglia”). Il compito di far emergere questa “forma comune” è il compito proprio della filosofia, che, nella concezione wittgensteiniana, è definita come “grammatica filosofica”.

Beniamino Peruzzi

Bibliografia

 Ricerche filosofiche, Ludwig Wittgenstein, Einaudi, 2009

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/en/4/49/Kandinsky_WWI.jpg

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