Università – La casa degli sposi di Sapienza

scriptorium

La scuola, come oggi la intendiamo, è una delle tante novità sorte nel Medioevo, pur avendo, come quasi tutte le istituzioni medievali, le sue radici nell’età antica. Inizialmente le forme di istruzione erano private: colui che deteneva il sapere, il maestro, veniva assunto da chi aveva bisogno di acquisire conoscenza, principalmente al fine di partecipare all’attività politica. In età ellenistica il Ginnasio, luogo in origine esclusivamente finalizzato ad attività ginniche per le gare atletiche, forniva l’istruzione ai ragazzi, preparandoli all’attività politica, cui avevano diritto tutti i detentori dello status di cittadini. Alla crisi della scuola antica contribuì in maniera decisiva l’affermarsi del Cristianesimo, che portò alla chiusura dei centri di cultura pagana (in particolare ricordiamo la chiusura della Scuola di Atene da parte dell’imperatore Giustiniano nel 529), e ad un processo di riconversione da tale cultura a una cultura ecclesiastica; tale processo durò fino alle soglie dell’età carolingia, cioè fino all’inizio dell’VIII secolo.

Per la nascita di quella che chiamiamo “università” si dovette però aspettare il XII secolo. Nel periodo di crisi del sapere – in particolare di quello filosofico – in seguito alla chiusura della Suola di Atene, letterati come Cassiodoro o Isidoro di Siviglia cercarono di salvare il salvabile, raccogliendo ciò che potevano nelle loro opere enciclopediche; parallelamente, nei monasteri, per lo stesso motivo, si custodivano e copiavano tutti i manoscritti possibili. La Chiesa aveva provveduto a istituire scuole vescovili e plebane, in cui la cultura grammaticale e letteraria era programmaticamente destinata a una migliore comprensione della “sacra pagina”, per avviare i giovani alla carriera ecclesiastica. Dal VI secolo iniziarono a nascere anche le scuole monastiche, importantissime per la quantità di materiali copiati che possedevano. Ciononostante il greco venne poco a poco dimenticato e le uniche opere filosofiche che rimasero furono le traduzioni in latino del De interpretatione e delle Categorie di Aristotele, e dell’Isagoge di Porfirio ad opera di Severino Boezio. Solo con la cosiddetta “rinascita carolingia” ricominciarono ad apparire figure di filosofi nella cristianità.

Migliorando le condizioni economiche e il benessere, riprese pian piano vigore la riflessione filosofica. Attraverso il contatto con la cultura araba furono riscoperte tutte le rimanenti opere del corpus aristotelico (quelle stesse che sono poi giunte fino a noi). Gli arabi infatti avevano tradotto nella loro lingua e conservato tali opere, utilizzandole come base per lo sviluppo del loro pensiero filosofico. Cominciarono imponenti processi di traduzione dall’arabo al latino, spesso assai macchinosi e poco funzionali: poiché nessun cristiano conosceva l’arabo, veniva sovente richiesto l’aiuto di mercanti ebrei che, in questo conoscitori ai fini dei loro commerci sia dell’arabo sia della lingua volgare, traducessero dall’arabo al volgare; poi il letterato latino traduceva l’opera dal volgare al latino.

Fu in questo clima che nacque un nuovo “mestiere”, quello del maestro di professione (magister), così come si affermò la convinzione che la cultura (e ancor prima l’istruzione) fosse una merce che si poteva comperare e vendere come qualsiasi altra merce. Questa che a noi può sembrare una banalità è in realtà una novità rivoluzionaria in un’epoca in cui vale l’assioma “scientia donum Dei est, unde vendi non potest” (la cultura è un dono di Dio e pertanto non la si può vendere). Nella mentalità medievale, infatti, poiché il sapere si fondava sulla Rivelazione, non si poteva vendere l’insegnamento, poiché comportava vendere qualcosa che era di Dio ed era da lui concessa per grazia. Tale azione era peccato di usura: senza fare nulla, cioè senza un ruolo attivo, ma solo col passare del tempo, l’insegnante avrebbe guadagnato. Il maestro era solo un canale attraverso cui si diffondeva la conoscenza, cioè la luce di Dio, ed egli doveva umiliarsi ed essere pago di essere strumento divino. Da questa concezione si riuscì a uscire attraverso la parabola dei talenti (quindi ponendo parola di Dio contro parola di Dio), in cui vengono premiati i servi che hanno messo a frutto il dono del padrone, e criticato il servo che non l’ha fatto fruttare. I maestri potevano quindi sostenere che avrebbero peccato di più se, pur avendo effettivamente ricevuto un dono da Dio, non lo avessero fatto fruttare. Così il maestro si sarebbe fatto pagare a buon diritto per la fatica impiegata per diventare degno canale dell’illuminazione che viene da Dio.

Ogni mestiere era organizzato in corporazioni (universitates), enti giuridici che garantivano un monopolio nella città e privilegi. Quando si esercitava un’arte occorreva giurare fedeltà alla relativa corporazione presente nel luogo di esercizio. Analogamente i maestri (e i loro studenti) si riunirono in una corporazione: l’universitas studiorum. Come tutte le corporazioni le università necessitavano di un garante: alcune avevano come garante il comune, altre il re, altre infine, come quella di Parigi, il papa (questo spiega la straordinaria importanza della facoltà di Teologia parigina in epoca medievale). Ogni università era poi regolamentata da uno statuto, approvato dal garante.

Le università assicuravano privilegi giuridici (immunità personale, esenzione dall’obbligo di leva, ecc.), economici (prezzi politici per alloggi, carta, ecc.) e fiscali (esenzione da imposte, pedaggi, ecc.); esse acquisirono un peso crescente all’interno della città. Gli universitari vi costituivano un gruppo relativamente omogeneo, ben riconoscibile per abbigliamento, gergo e stile di vita, che si distingueva per quattro caratteristiche peculiari: era formato da soli uomini, in genere assai giovani, celibi, non pochi dei quali appartenenti ad ordini religiosi (come domenicani o francescani); era composto da persone provenienti da paesi diversi, ma consapevoli di appartenere a un’élite cosmopolita dotata di una comune cultura; era selezionato non sulla base del sangue o del denaro, ma (almeno in linea di principio) esclusivamente secondo criteri di merito. Non fu raro che la popolazione universitaria creasse disordini nelle città, a volte duramente repressi; questi in alcuni casi erano legati alla nascita del fenomeno della goliardia.

Con la nascita dell’università il sapere assunse per la prima volta carattere universale: in ogni università vi erano le stesse facoltà, era utilizzata la stessa lingua, veniva utilizzato lo stesso metodo di insegnamento, e questo permetteva un’agile mobilità di allievi e professori da un’università ad un’altra. Tra insegnante e allievo non vi era più rapporto di amicizia, come era comune in antiche forme, e le lezioni avevano programmi codificati. Nelle università era sottolineato il carattere sovraindividuale dell’insegnamento: non si teneva conto delle caratteristiche individuali dei soggetti, ma dell’universalità del sapere, che era uguale per tutti.

Il curriculum di studi veniva scandito da esami, il che significava che non bastava più conoscere, ma bisognava avere una certificazione del conoscere. L’obbiettivo era l’acquisizione della “licentia ubique docendi”, cioè la licenza all’insegnamento. Questa era ottenuta dopo il conseguimento della laurea magistrale, una cerimonia che rappresentava un vero e proprio matrimonio dello studente con la Scienza acquisita durante i suoi studi. Il maestro faceva un’oratio di lode sul candidato, sul percorso di studio che aveva seguito, garantendo che erano state seguite tutte le regole previste. Tale discorso era un’orazione erotica, in cui si parlava di amplessi e di veglie amorose, utilizzando un linguaggio amoroso dedicato alla sapienza. Dopodiché il laureando teneva davanti agli esaminatori una lezione che si era preparato, mostrando di essere degno di venire ammesso come magister. Gli venivano poi conferiti alcuni oggetti a carattere simbolico: un anello, che sanciva il matrimonio del laureato con la Scienza; un bacio (il bacio accademico), che significava riconoscere il laureato come parte del corpo dei maestri, accogliendolo con un gesto di amicizia; un libro aperto in mano (elemento che ricorre nell’iconografia quando vengono rappresentati i maestri) a significare che la scienza studiata, che all’inizio del percorso era come un libro chiuso per lui, gli era adesso chiara davanti come un libro aperto; un berretto, che significava che era stato potenziato, nel laureato, ciò che era in lui più elevato, cioè il suo cervello, che dalla potenza era passato all’atto.

Le facoltà nelle università erano quattro: facoltà delle Arti; facoltà di Diritto (civile e canonico); facoltà di Medicina; facoltà di Teologia. Nella facoltà delle Arti erano insegnate le sette arti liberali, suddivise in Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e Quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia). Tali arti dovevano la loro suddivisione a Marziano Capella (IV secolo d.C.) e sempre da lui erano state definite liberali con la seguente motivazione: “sono proprie degli uomini liberi, e di quella parte dell’uomo che è più libera e per di più rendono liberi, ovvero rendono più libero chi se ne dedica rispetto a chi non se ne dedica”. Le altre arti erano definite arti meccaniche, false arti, o arti adulterine, poiché erano attività da un lato perlopiù svolte da schiavi, dall’altro lato rivolte a quella parte dell’uomo in cui egli non è libero ma è legato all’ambiente materiale in cui vive. La facoltà delle Arti era considerata preparatoria, mentre fra le facoltà “superiori” quella di Teologia era collocata al grado più alto. L’accesso alle facoltà superiori era consentito solo a chi avesse ottenuto il magistero nella facoltà delle Arti, e non era considerata con favore una permanenza in tale facoltà: secondo un noto adagio, non bisognava “invecchiare alle Arti”.

Gli statuti universitari definivano con precisione gli “atti scolastici”, cioè le attività didattiche tramite le quali si realizzava il processo di trasmissione del sapere, ovvero la modalità di insegnamento. Gli atti scolastici fondamentali comuni a tutte le discipline erano tre: la lezione (lectio), la spiegazione letterale (sensus) e la disputa (disputatio). Dopo la lettura integrale delle auctoritates curricolari e la spiegazione letterale, venivano dal maestro sollevati problemi esegetici e teorici (dubia circa litteram). Iniziava così il procedimento della “quaestio” (domanda), il cui schema era lo stesso per tutti i problemi. La quaestio veniva introdotta da un “utrum” (se), per esempio “Quaeritur utrum theologia sit scientia an non” (Ci si chiede se la teologia sia una scienza o no). Il maestro allora sceglieva un assistente, normalmente un baccelliere (studente che aveva frequentato due bienni di corso della facoltà in questione, e che aveve passato l’esame detto baccalaureato), che relativamente a tale quaestio era denominato “opponens”. Questi aveva il compito di esporre il “videtur quod non” ovvero gli argomenti a sfavore del punto in questione (in questo caso a sfavore del fatto che la teologia fosse una scienza). Seguiva poi il “sed contra”, ovvero l’esposizione degli argomenti a favore del punto in questione, effettuata da un secondo assistente (sempre un baccelliere) deonominato “respondens”. Infine il maestro risolveva la questione con il “respondeo quod”: tutti gli argomenti dell’opponens vengono confutati ed è data la soluzione.

La critica che venne rivolta dall’Umanesimo a questo sistema era che questo moltiplicare le questioni portava a perdere di vista ciò di cui si sta parlando. Tuttavia il metodo delle quaestiones era estremamente efficace e metteva alla prova le capacità logiche e argomentative dei soggetti. Più che un confronto tra opinioni di persone diverse, era da intendersi come un dialogo del sapere con se stesso: studenti e maestri si adoperavano per problematizzare ogni questione, addestrandosi a risolverla. La quaestio assumeva anche un aspetto spettacolare in occasione delle “quaestioni quodlibetali” (quodlibet), che si tenevano durante l’Avvento e la Quaresima. In tale occasione ai maestri venivano poste domande su qualunque argomento (per questo erano dette quodlibeta) ed essi dovevano improvvisare una quaestio, con gli argomenti pro e contro e la soluzione. Erano chiaramente occasioni di enorme stress per i maestri; spesso, infatti, venivano poste domande futili in apparenza ma dalle difficili implicazioni teologiche, come “quanti angeli possono stare sulla punta di uno spillo?”; ma erano anche occasioni per valutare effettivamente le competenze di ognuno di essi.

Infine, vediamo come nel Medioevo era vista la “domus scolastica”, seguendo il testo dell’Iconomica di Corrado di Megemberg. La casa-comunità scolastica era paragonata a una vera casa. Il magister rappresentava il padre, i vari bidelli e sorveglianti i servi; dal rapporto amoroso tra il padre-magister e la madre-scienza nascevano i figli, ovvero gli studenti, che una volta cresciuti sarebbero diventati anch’essi maestri al momento della laurea, ovvero quando anch’essi, come abbiamo visto, si fossero sposati con la Scienza.

 

Beniamino Peruzzi

Bibliografia:
Bianchi L., La filosofia nelle università. Secoli XIII-XIVI, La Nuova Italia, 1997
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