Non c’è miglior fondamento dell’assenza di fondamento – Etica e responsabilità personale

eichmann

La vulgata contemporanea in Occidente risuona continuamente di luttuose lamentazioni sulla crisi morale tipica della nostra epoca. Da più parti, e negli ambienti più disparati (la cui convergenza su questo punto sarebbe stata a priori insospettabile), si sente con costanza ripetere che “non c’è più religione”, che “prima non era così”, che questi sono tempi derelitti; le cause addotte sono molteplici, forse maggiori delle varietà soggettive che le adducono, ma raramente indagate, assunte invece per una sorta di buon senso, come autoevidenti. Quanto di comune possiamo rintracciare tra di esse, dopo averne soffiata via la polvere variamente millenarista che le ricopre, è l’idea che l’uomo contemporaneo si sia eticamente smarrito perché non riconosce più alcun valore che trascenda la sua persona, e che dunque l’unica soluzione (generalmente vagheggiata più in una virtualità nostalgica che in un progetto di recupero effettivo) sia un ritorno a sistemi di valori che hanno caratterizzato il passato, o sue parti, all’interno della nostra tradizione storica: ciò offrirebbe rinnovate garanzie all’etica migliorando, in misura indefinita ma di solito ottimisticamente valutata come consistente, le nostre società; ma realmente queste garanzie garantirebbero qualcosa?

Si domandi a qualcuno che faccia abitualmente pensieri di questo tipo: “La società era migliore prima? Quando si colloca questo ‘prima’? Non c’erano omicidi, frodi e ingiustizie anche prima?”. La risposta di costui, a meno che non navighi nella controfattualità, sarà che no, neanche un tempo le cose andavano meglio. Tuttavia, continuerà, ciò avveniva perché quelle persone che commettevano omicidi, frodi e ingiustizie  lo facevano in quanto vivevano al di fuori dei sistemi di valori e delle garanzie che essi offrivano alla morale. Ad un primo sguardo, una simile interpretazione può sembrare coerente, riconduce le mancanze etiche tanto del passato quanto del presente ad una medesima causa comune, significando che tolta questa di mezzo non ci sarebbero ostacoli al libero dispiegarsi della virtù. Guardando meglio, tuttavia, ci rendiamo conto che essa trascura un fattore fondamentale, quello della responsabilità personale, che qui sembra invece risolversi, prima ancora d’essere concettualizzata, nell’aderenza ad un determinato sistema di valori. Ma andiamo più a fondo: non è forse questa la trasposizione in un orizzonte laico della distinzione agostiniana* tra libero arbitrio e libertà? La responsabilità personale in tal senso si risolve tutta allo stadio del libero arbitrio, quello in cui all’uomo è dato scegliere (in senso distributivo o generale) il Bene o il Male, per Dio o contro Dio (posto che la scelta si è solitamente configurata, nella storia, come più o meno commutabile): il libero arbitrio sta così nell’aderenza o nella non aderenza ad un certo sistema di valori, ma non concerne la libertà all’interno delle singole questioni etiche o sull’etica in generale; la libertà in quest’ottica si consegue solo operando la scelta giusta, il Bene. Si badi che da ciò poco si distanzia Kant (che qui opera una negazione inerente da manuale della morale cristiana, facendola uscire dalla porta della Rivelazione e rientrare dalla finestra della Ragione) il quale concede all’uomo di uscire dal regno della necessità naturale solo scegliendo di entrare in quello della necessità morale (razionale). Si tratta dunque di una libertà formale, ovvero una libertà cui è dato agire in un orizzonte già dato, ma che non può cambiare le coordinate del proprio sistema di riferimento, esattamente come un giocatore di scacchi, che è libero di giocare come preferisce, purché rispetti però le regole degli scacchi.

Cosa comporta questo per la responsabilità personale? Che essa è implicata nella scelta del sistema etico, ma non nei suoi contenuti: per quelli la responsabilità sta nella fonte d’autorità che li ha stabiliti. Alla possibile domanda “Perché questo è grave?” risponderei col seguente esempio: un ufficiale nazista che, interrogato riguardo al suo ruolo rispetto ai campi di sterminio, risponde: “Obbedivo agli ordini”. Si badi che questa non è una scusa, non è una giustificazione puramente estrinseca addotta dinnanzi al tribunale, ma la giustificazione che l’ufficiale nazista dà a sé stesso: ai suoi occhi egli non è responsabile, perché ha abbracciato una causa con tutto ciò che essa comportava e avrebbe comportato, ma ciò che essa comportava non dipendeva in alcun modo da lui, bensì, attivamente o reattivamente, dal Führer, dalle contingenze storiche, dal popolo ebraico magari! Potremmo portare anche altri esempi che non destino istintivamente in noi altrettanta repulsione (benché la cosa non sia necessariamente giustificata), come il crociato che non si perita a commettere uccisioni, anche d’innocenti, perché s’accompagna col grido “Deus vult!” e agisce con la garanzia di un sistema di valori sancito niente meno che dalla Chiesa di Roma, da Dio! Cosa direbbe il nostro ipotetico interlocutore di costui, forse che egli uccideva e commetteva ingiustizie perché non aderiva al retto sistema di valori? Dirà forse che egli agiva secondo la distorsione del retto sistema di valori, ma così facendo si limiterà a spostare ulteriormente a monte questo supposto “sistema buono”, come già nella sua prima risposta; se lo sposterà abbastanza a monte, tuttavia, forse potrà accorgersi di quale sia il suo luogo naturale: quello della pura idealità.

Rovesciamo allora la questione rispetto a come si era inizialmente posta: è l’aderenza al sistema di valori che genera l’ingiustizia, in quanto essa permette al singolo di estraniarsi rispetto alla sua responsabilità personale, a non riconoscersene alcuna.

“Come si spiega allora la sua persistenza oggi, laddove questo tipo di riferimento è venuto a mancare?”. È semplice: non è venuto a mancare. Portiamo un esempio banale: un passante getta per terra una bottiglia di plastica vuota. Come si difenderà se glielo si farà notare? Generalmente dicendo “Tanto lo fanno tutti”, frase che dice più di quanto non sembri: essa infatti significa che dal momento che moltissimi non si pongono la questione dell’ecologia, e dunque neppure il problema di inquinare l’ambiente con i propri rifiuti, dunque inquinando attivamente, il fatto che lui inquini o meno è indifferente: egli non è responsabile per l’inquinamento, neppure se butta per terra un rifiuto in prima persona, perché responsabili sono tutti (gli altri): la colpa è di tutti, dunque di nessuno preso singolarmente. Costui sta allora agendo secondo un sistema di valori minimo e non formalizzato, costituitosi a partire dal semplice ripetersi di un’azione da parte di una moltitudine di soggetti, in cui ciascuno, riferendo la responsabilità alla totalità, la allontana dalla propria persona (il passo da compiere in questo senso sarebbe un ribaltamento della conclusione etica in questo modo: “La colpa è di tutti quindi di ciascuno preso singolarmente”).

La “crisi morale” dunque non si supera con l’aderenza ad un sistema di valori, ma con l’annientamento di ogni aderenza, da intendersi a questo punto come alienazione di responsabilità, sgombrando il terreno circostante ciascun soggetto da sistemi di valori che gli sono estrinseci, costringendolo a prendere coscienza del fatto che non solo la scelta di un certo orizzonte morale, ma ogni atto singolare (e ogni scelta singolare che lo determina) è etico, perché ogni atto è compiuto in un contesto sociale ed ha conseguenze sul soggetto e sulla totalità, in senso universale e in senso distributivo, e in quanto tale ciascun atto presuppone l’assunzione di responsabilità da parte di chi lo compie: solo l’assenza di un fondamento, ovvero di un “luogo metafisico” cui demandare la propria responsabilità, può rendere questo possibile.

A chi dice “Ho solo obbedito all’ordine di uccidere, non ho scelto di uccidere” si potrà e si dovrà allora rispondere “Hai scelto di obbedire. E hai scelto di uccidere”.

Bernardo Paci

 

*Genericamente cristiana, si ricordino le parole di Paolo di Tarso: “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; io infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.”  (Lettera ai Romani, 7, 18-20).

 

Bibliografia:

AAVV, Bibbia (versione C.E.I.), Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2009.
Hannah Arendt, La banalità del male, Ed. Feltrinelli, Milano 2001.
Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Ed. Laterza, Roma-Bari 1997.
Jaques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, Ed. Einaudi, Torino 2008.

Immagine:

http://www.timesofisrael.com/ben-gurions-bombshell-weve-caught-eichmann/

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