Sembra che i primi ambiti in cui Aristotele svolse degli studi una volta entrato nell’Accademia platonica siano stati la dialettica e la retorica; in particolare risulterebbe, seppure da un frammento di lettura dubbia, ch’egli fosse stato incaricato di gestire la polemica contro Isocrate, fondatore a sua volta d’una scuola filosofica (ma in un’accezione ben differente da quella platonica) e acerrimo avversario di Platone, la cui Accademia Isocrate accusava d’essere scuola di sofisti. Comunque fosse, pare che proprio operando nell’ambito della dialettica sia germinato il primo seme della critica aristotelica nei confronti di Platone; in termini concettuali essa ha inizio con l’abbandono della nozione pesantemente metafisica di μέθεξις (“partecipazione”, ovverosia il rapporto intercorrente tra una certa qualità di una cosa empirica e l’idea platonica corrispondente; si dice ad esempio che un bel quadro è tale in quanto partecipa dell’idea di bellezza) a favore di un’indagine svolta direttamente sulla predicazione; non induca questo a pensare che per Aristotele esistesse una rifrazione originaria tra linguaggio, pensiero e realtà: tutto l’opposto, trattasi qui di una scelta di metodo.
Innanzitutto, in Aristotele, tutti i modi di predicazione propriamente detti sono esprimibili in forma apofatica (da ἀπόφασις): “s (soggetto) è p (predicato)”, il che garantisce un’ottima commensurabilità di base tra le proposizioni facilitandone di gran lunga il confronto e lo studio. In secondo luogo Aristotele introduce e rende centrali nei rapporti di predicazione le differenze qualitative tra le diverse modalità, laddove nella μέθεξις platonica v’erano solo relazioni quantitative; ciò risulta immediatamente chiaro nel capitolo V del I libro dei Topici, in cui lo Stagirita enumera i quattro modi fondamentali della predicazione, contraddistinti da una parte dal più o meno intenso grado di forza nel rapporto tra soggetto e predicato, dall’altra appunto da differenze qualitative proprie di ognuno di essi: la definizione (ὅρος o più propriamente ὁρισμός), il proprio (ἵδιον), il genere (γένος) e l’accidente (συμβεβηκός).
La definizione, che rappresenta il rapporto di predicazione più forte, è identificata come quel discorso (λόγος) perfettamente sostituibile al nome (ὄνομα) cui è riferito e che ne predica l’essenza (οὐσία o, con un’espressione ermetica ma usata in senso più tecnico, τὸ τί ἦν εἶναι; tanto ermetica che i commentatori latini non hanno potuto far altro che tradurla parola per parola mantenendo il significato generale: quod quid erat esse). In termini più tecnici, un λόγος è definitorio quando tutti gli s sono uguali a tutti i p, tutti gli enti nel soggetto sono anche tutti gli enti nel predicato, di modo che si ha una coincidenza necessaria (se fosse contingente non sarebbe una definizione) perfetta tra concetti, la quale appunto ne permette la sostituibilità: in “l’uomo è animale razionale”, “animale razionale” coincide perfettamente con “uomo” e dice la sua essenza. In generale, solo un discorso può avere carattere definitorio, ma esistono delle eccezioni: ad esempio, nella proposizione “il bello è il conveniente” si sta denotando una perfetta coincidenza tra i due concetti, e lo stesso dicasi per una proposizione come “se siano la stessa cosa conoscenza e sensazione o cosa diversa”, che rappresenta un esempio dei tipici problemi legati alle definizioni (quelli di stabilire se definiens e definiendum siano la stessa cosa o meno, ossia se una definizione sia valida o meno), poiché, per essere giudicata inadeguata, è sufficiente presentare un solo esempio che la ecceda. Questi sono, tuttavia, discorsi del metodo definitorio, ma non rappresentano definizioni: perché un discorso sia definizione, come detto sopra, è necessario non solo che sia identico (coincidente, sostituibile) al nome, ma anche che ne dica l’essenza, il “che cos’è”; tuttavia, è sufficiente che non sia identico perché non sia da considerarsi definizione. Da quanto detto risulterà subito evidente la grande differenza intercorrente tra la concezione platonica e quella aristotelica di definizione: se per Platone essa è de facto irraggiungibile e ci si può avvicinare ad essa in maniera sempre non esaustiva solo attraverso l’accumulazione di rapporti di partecipazione qualitativamente identici tra loro, ovvero per via estensiva, per Aristotele essa può darsi pacificamente, è sufficiente un’appropriata indagine critica per identificare una definizione corretta da un punto di vista estensivo (ovvero identica a ciò che deve definire) e da un punto di vista intensivo (ovvero che dica l’essenza); tale differenza è dettata dai rispettivi presupposti metafisici: per Platone le essenze sono trascendenti, separate, sono in un altrove di cui non si ha intuizione, per Aristotele esse sono immanenti alle cose, dunque conoscibili per intero.
Il proprio è invece quel discorso in cui tutti gli “s” sono uguali a tutti i “p”, dunque è perfettamente sostituibile a ciò a cui “p” è riferito, ma non ne dice l’essenza: “capace di ridere”, ad esempio, è un predicato proprio dell’uomo, poiché tutti gli uomini sono animali capaci di ridere e tutti gli animali capaci di ridere sono uomini (può essere sostituito a “uomo” senza che il referente cambi o cessi di essere univoco), dunque si tratta comunque d’un rapporto necessario, ma ciò non designa l’essenza dell’uomo; infine, se può appartenere a qualcosa di altro da ciò di cui dovrebbe essere proprio, non è un proprio.
Il genere è ciò che riguardo all’essenza di una certa cosa si predica di più cose che la specie (εἴδος, lo stesso termine che in Platone usualmente designa l’idea; essa è identificata dalla definizione attraverso l’unione di genere e differenza specifica), ossia è dotato di maggior estensione e fornisce minore informazione (verrebbe informalmente da dire che è “meno specifico”, il che sarebbe corretto nella sostanza ma rischia d’essere fuorviante nella forma in questo contesto): l’uomo (la specie uomo) e il bue (la specie bue) appartengono entrambi al genere animale; il genere dunque è nel “che cos’è”, è parte della definizione, ma da sé non la esaurisce; infine, il genere è a sua volta legato in rapporti necessari con le specie che contiene: tutte le caratteristiche del genere passano nelle specie sottostanti.
L’accidente rappresenta la modalità di predicazione più debole, poiché il suo legame con ciò a cui è riferito è contingente e non necessario: “συμβεβηκός” (da συμβαίνω, “andare con”, “accompagnare”) si potrebbe infatti rendere con “concomitante”, è “ciò che capita”, come avviene in proposizioni come “Socrate dorme” o “L’uomo è bianco”; si badi tuttavia che non si tratta di un semplice criterio estensivo, anche un universale può essere un accidente: è induttivamente vero, ad esempio, che “tutti i corvi sono neri”, ma l’essere nero non ha a che vedere con l’essenza del corvo, si tratta comunque, in termini intensivi, d’un rapporto contingente. Vi sono tuttavia dei casi problematici: che la somma degli angoli interni di un triangolo sia di 180° è necessario, ma non è la definizione, non è un proprio e non è un genere, che cos’è allora? Questo e simili casi sono detti “accidenti-in-sé”; potremmo definirli come quelle caratteristiche che non sono implicite nella cosa ma che ugualmente intrattengono con essa un rapporto necessario: sarebbero dunque non dissimili da quei giudizi sintetici a priori che rivestiranno un ruolo centrale nel pensiero di Kant.
Bernardo Paci
Con amicizia letto da Arnaldo Mitola
Bibliografia
E. Berti, Profilo di Aristotele, Ed. Studium, Roma 1979.
W. Jaeger, Aristotele, La Nuova Italia Ed., Firenze 1964.
Aristotele, Topici in Aristotele, Organon (a cura di Giorgio Colli), Einaudi Ed., 1955.
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Premesso che si sarebbe potuto trattare tale argomento con un linguaggio più semplice (da non confondere con più banale); premesso altresì che sono riuscito, nonostante ciò, a comprendere il tutto al netto dei termini greci, vorrei esprimere la mia idea a proposito dell’argomento definito “accidente in sé” e, in modo specifico, relativamente all’esempio proposto della somma necessaria degli angoli di un triangolo pari a 180 gradi. Trattandosi, in questo caso, di un ente non naturale (una figua della geometria di Euclide), ma frutto di una interpretazione logica del mondo, è assolutamente ovvio che tutte le caratteristiche che lo riguardano siano non “non implicite” ad esso ma, al contrario, perfettamente implicite e coincidenti, ovvero, rappresentino, rispetto a quell’ente, la medesima cosa.
Una tautologia, tanto per fare un esempio, come la prova ontologica, offre un’argomentazione in cui il predicato dell’esistenza è perfettamente conforme alla “natura” del soggetto e inevitabilmente coincidente con esso e coerente con la struttura logica aprioristicamente determinata, seppur infruttuosa sul piano conoscitivo; appunto, una tautologia!