Quando mi viene chiesto cosa sto studiando in questo momento, la mia risposta non è il banale Leopardi o l’ormai dimenticato Bembo nel suo agguerrito dibattito sulla lingua italiana: sarebbe troppo scontato per una studentessa di Lettere moderne. Al contrario, il mio prossimo esame verterà sulla storia dell’arte contemporanea. Se i nomi di Pollock o Fontana possono far suonare qualche campanello nella mente di molti, non è certamente così per artisti come Christo o Gina Pane. I miei tentativi di spiegare le opere d’arte dell’ultima metà del secolo si arenano, solitamente, di fronte a facce scettiche e gesti di insofferenza. Ultimamente, poi, uno degli epiteti più volte ripetuti per liquidare questi artisti è stato “gente esasperata”.
Come possiamo considerare Arte l’impacchettamento di oggetti di ogni tipo, fino ad arrivare alle stesse porte e mura di Roma (come ha fatto Christo) o il pungersi con le spine di una rosa da parte dell’italiana Gina Pane, fino all’esperimento di Kounellis che ha costretto poveri spettatori e critici ad entrare in una stanza dove erano stati rinchiusi alcuni cavalli per 24 ore di fila? Se ancora possiamo trovare un senso di denuncia nell’orinatoio di Duchamp (Fontana, 1917), è improbabile che il nostro gusto nutrito dalla bellezza di Masaccio ed educato dalla linea perfetta di Raffaello possa accettare come artistiche dimostrazioni che non hanno alcun carattere estetico o edonistico.
A mio parere, abbandonando per un secondo i pregiudizi per cui io stessa, quando, in una mostra, arrivo alla sezione delle opere più contemporanee, tendo ad affrettare il passo, dovremmo partire dalle cause storiche di questo nuovo genere di arte. Penso che la base più importante sia fornita dal Dadaismo, sviluppatosi contemporaneamente in Europa e in America, tra il 1916 e il 1922. Dada è stato brillantemente definito da Hausmann come “la rivolta dei non-credenti contro i miscredenti”: è un comportamento, un atteggiamento verso l’arte e la vita stessa, è la negazione di ogni valore, ideale, regola e legge morale, artistica, politica, estetica. L’obiettivo è dichiaratamente quello di destare scandalo; si tratta di un movimento artistico che nega lo stesso valore dell’arte, ogni suo scopo e funzione. I dadaisti si ribellano alla società borghese e capitalista, al consumismo e al conformismo usando i procedimenti e i materiali della società stessa: fotografie, fotomontaggi, oggetti trovati, materiali industriali come plastica e ferro. L’intento dissacratorio nei confronti di ogni canone artistico è evidente: Duchamp fa i baffi alla Gioconda. “Non sono in grado di dipingere e scolpire davvero.”: questo è quello che molti obiettano. Non è corretto: usano tecniche dell’impressionismo, cubismo, futurismo, espressionismo, ma non è l’opera il centro dell’interesse: è il gesto. L’azione scandalosa, svolta per scatenare le ire dei benpensanti, è gratuita, inutile, immediata. Quando Duchamp espone l’orinatoio, capovolto e col titolo Fontana, firmandolo con il nome “Mutt” del progettatore, desta un grande scandalo: la critica artistica ne parla, si infuria, il pubblico accorre a vederlo alla mostra. Questa è la legittimazione di quell’orinatoio come opera d’arte e la dimostrazione di ciò che premeva a Duchamp: non è la tecnica, la perfezione stilistica, la bellezza estetica a conferire a qualcosa il valore di opera, ma un mero atto mentale. Siamo noi a decidere cosa è arte e cosa no e lo facciamo con un giudizio arbitrario del nostro cervello. Allora, chiunque può essere artista perché l’arte non è decisa da una tecnica, ma si tratta di una vera e propria libertà. Secondo Duchamp, l’arte è gioco e quindi solo giocando siamo davvero liberi e, di conseguenza, paradossalmente, seri.
Dada, per le sue stesse premesse di assoluta distruzione di qualsiasi valore, non può affermare tutto questo attraverso un nuovo sistema di leggi: lo farà decontestualizzando l’oggetto, estraendolo da suo habitat naturale e ponendolo in uno completamente diverso, in modo da creare un cortocircuito nella mente dello spettatore. È ovvio che Dada finirà per annientare se stesso, ma porrà le premesse del surrealismo (la pittura di Mirò non ha alcun significato, è solo formalità, gioco; così come la Metafisica di De Chirico concepisce l’arte come speculazione sulla nullità dell’esistenza e quindi è, anch’essa, nullità, priva di ogni funzione).
L’arte contemporanea è una ribellione contro la realtà, un mondo di cui gli artisti sentono il disagio e il pericolo. Pollock, attraverso la tecnica del dripping (lasciar colare il colore sulla tela, cosa che già facevano i surrealisti), fa emergere l’inconscio: è un’arte che non vuole educare né usare un linguaggio aulico perché sarebbe solo anacronismo, mistificazione. La pittura è un’affermazione dell’esistente, è specchio della contemporaneità.
Quando Christo impacchetta gli oggetti, permette di vederne solo la forma e non ciò che essa contiene, con l’intento di far riflettere sulla società di consumo; ci eravamo forse accorti della bellezza e dei particolari delle mura romane prima che venissero ricoperte dalla carta?
Viviamo in un mondo frenetico, in cui consumiamo oggetti effimeri senza neppure rendercene conto. A. Warhol, maggiore esponente della Pop Art, ingigantisce e riproduce ossessivamente l’immagine di Marilyn Monroe, icona del cinema e della bellezza, o incidenti stradali o il ritratto di Kennedy; le opere di Oldenburg sono enormi hamburger e patatine di plastica: perché scegliere questi oggetti? Allora il quotidiano ha valore? Gli artisti impongono davanti agli occhi degli spettatori ciò che scompare nel consumo, gli emblemi stessi della nostra civiltà, gli oggetti scontati della vita. Allora, l’ “arte del popolo”, della massa, diventa un’arte che solo un’élite comprende. Lichtenstein riproduce, ingigantendoli, particolari dei fumetti, che disegna e dipinge manualmente e in modo meticoloso, puntino per puntino, linea per linea: si tratta di uno straniamento dell’immagine popolare, ora elevata al rango di opera d’arte sofisticata.
L’arte del ‘900 è denuncia, violenza, costrizione del pubblico a vedere la propria condizione. Le manifestazioni sono volte a sconvolgere lo spettatore, spingerlo a guardare oltre l’aspetto di cose scontate e banali; la cosiddetta Body Art utilizza addirittura il corpo dell’artista o di modelli, come effetto della drammaticità del nostro essere, della vita. La Land Art costruisce opere effimere all’interno dei paesaggi naturali, come Heizer che scava solchi nel deserto del Nevada: è un’arte che vuole spingere a riflettere sul nostro rapporto malato con la natura, sconvolto dall’industria e dalla tecnologia. Si tratta di un tipo di arte concettuale, in cui non è importante la forma, il piacere estetico, ma il messaggio, il contenuto. Vuole avere l’effetto di una fustigazione del costume e di irrisione verso la tendenza accaparratrice del collezionismo, mettendo in evidenza l’aspetto teoretico, noetico, mentale contro quello fattuale, tattile, edonistico.
Tuttavia, ha molti lati negativi, come le esibizioni sado-masochistiche (Schwarzkogler arriverà a simulare un’autocastrazione in pubblico) o le operazioni linguistiche fini a sé stesse; è un tipo di arte che tende ad un esaurimento, sia per la stanchezza degli artisti sia per la mancanza di originalità e competenze degli esecutori. Infatti, già negli anni ‘70 ha subito un brusco declino. Tuttavia, dovremmo considerare che si tratta di un frutto della nostra società e dei nostri tempi: avrebbe forse un senso rifare la Venere del Botticelli adesso? Sicuramente la ripetizione di un passato di grandezza non può far altro che mistificare la realtà presente, rassicurandoci o distraendoci in un meraviglioso mondo ideale e perfetto. Esiste una soluzione di compromesso: un’arte non solo come denuncia ma anche come costruzione positiva, non slegata dalla realtà, ma che fornisca un nuovo sistema di valori, adatti ai nostri tempi. E’ un po’ quello che è sempre accaduto: dal nichilismo assoluto del dadaismo e della Metafisica è nato il surrealismo, che cerca e offre, nell’inconscio e nella dimensione onirica e nella loro futura fusione con la realtà concreta, una soluzione positiva ai quesiti esistenziali angosciosi.
In conclusione, forse è vero che gli artisti della seconda metà del ‘900 sono “gente esasperata” e, forse, proprio per questo hanno valore: sono come noi, sentono e si esprimono, denunciano noi e sé stessi. Il loro disagio e la loro esasperazione son anche i nostri: vedere le loro opere è vedere noi stessi e come viviamo: possiamo non considerarla arte, ma almeno abbandonare il pregiudizio snobistico per cui sono opere che non hanno nulla da dire, prive di significato e di importanza.
Federica Avagnano
Un ringraziamento particolare ad Arnaldo Mitola,
con cui ho parlato di questo argomento e che ha coniato e abusato del termine “gente esasperata” riferito a questi artisti, ma il cui interesse mi ha fornito lo spunto per una riflessione più articolata
Con amicizia letto da Bernardo Paci
Bibliografia
Mario De Micheli, Le avanguardie del Novecento, Feltrinelli, 1986, Milano
Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Feltrinelli, 1961, Milano
Giulio Carlo Argan, L’arte moderna 1770-1970, Sansoni, 1970, Milano
Immagine: Gina Pane, Azione sentimentale, 1973
Lettura molto interessante, grazie mille. L’arte è inevitabilmente il riflesso di uno spaccato di società, ma siamo sicuri che non debba più tendere ad un qualche ideale?
Grazie e grazie per il commento! A mio parere, l’arte dovrebbe anche veicolare valori e ideali, ma che non siano anacronistici o mere utopie avulse dalla nostra contemporaneità. La denuncia è un buon punto di partenza, ma penso e spero che ci sia sempre un’evoluzione propositiva!
Concordo in pieno su questi punti… 😉
Ne sono contenta! 🙂
Ho letto con piacere le tue parole e ho trovato molti punti d’incontro con ciò che io penso dell’arte contemporanea. Peccato che oggi l’arte non sia sempre come la esprime Duchamp “un gioco”, o come la definirei io “pura espressione di sè” da ciò che ho inteso dalle parole del mio maestro e amico Paolo Balmas.