La questione dell’aborto è centro di importanti dibattiti morali. In questo articolo ci proponiamo di esaminare la tesi di difesa dell’aborto presentata dalla filosofa Judith Jarvis Thomson. Prima però vediamo qual è il panorama generale del dibattito sull’aborto.
La tesi principale degli antiabortisti si fonda sul seguente sillogismo pratico: 1) non si possono uccidere esseri umani; 2) il feto umano è un essere umano; 3) non si può uccidere il feto umano. Un utilitarista obietterebbe direttamente la tesi del punto 1): non sempre non si possono uccidere esseri umani, ma l’uccisione può essere legittimata quando massimizza l’utilità, cioè la felicità. In questo caso, se una madre non avesse modo di mantenere un bambino, e questo porterebbe sia lei che il nascituro all’infelicità e probabilmente alla morte, sarebbe lecito abortire. La posizione utilitarista è tuttavia ben difficile da mantenere in modo radicale.
La usuale replica degli abortisti consiste nel negare il punto 2). La tesi dell’antiabortista sul fatto che il feto umano sia un essere umano si fonda sulla considerazione che lo sviluppo di un essere umano dal concepimento alla nascita, fino, poi, alla fanciullezza è un processo continuo, e allora tracciare una linea divisoria tra persona e non persona significherebbe fare una scelta arbitraria: faremmo perciò meglio a dire che il feto è una persona fin la momento del concepimento. Un argomento di questo tipo è talvolta chiamato “argomento del piano inclinato”. Tuttavia si potrebbe replicare che si può fare una considerazione simile anche riguardo allo sviluppo di una ghianda in una quercia: anche questo è un processo continuo, ma non segue che le ghiande siano querce. È difficile sostenere che il feto sia una persona fin dal momento del concepimento: un ovulo fecondato da poco, un agglomerato di cellule da poco impiantato, non sembra essere una persona più di quanto una ghianda non sia una quercia.
L’argomento a difesa dell’aborto della Thomson vuole dimostrare che è possibile sostenere una difesa dell’aborto anche senza trattare la questione se il feto sia o no una persona. La Thomson accetta la tesi che il feto sia una persona fin dal momento del concepimento. Pertanto, riconosce, il feto ha, come ogni persona, diritto alla vita. Indubbiamente la madre ha il diritto di decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo interno, ma è certo che il diritto alla vita di una persona è più forte e cogente del diritto della madre a decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo interno, e quindi prevale su di esso.
Immaginiamo ora, tuttavia, la seguente situazione. Una mattina ci svegliamo e ci troviamo distesi al fianco di un famosissimo violinista privo di coscienza. Gli è stata diagnosticata una grave insufficienza renale, e la società dei musicofili ha scoperto che noi siamo gli unici a possedere il tipo di sangue adatto per la trasfusione. La società ci ha allora rapiti e ha collegato il nostro sistema circolatorio a quello del violinista, in modo che i nostri reni possano depurare il suo sangue, e ci viene detto che occorrerà rimanere in questa situazione per nove mesi prima che il violinista guarisca dalla sua insufficienza. La società dei musicofili ci ha certamente fatto un torto, ma staccarci dall’apparecchio significherebbe uccidere il violinista. Abbiamo il dovere morale di acconsentire a questa situazione? E la risposta cambierebbe se invece di nove mesi si trattasse di nove anni, o di un periodo ancora più lungo?
Esattamente come il feto, il violinista ha un diritto alla vita che noi violeremmo se ci staccassimo dall’apparecchio. In questo caso, naturalmente, siamo rimasti vittime di un rapimento, non ci siamo sottoposti volontariamente all’intervento. Ma allora occorre chiedersi se si possa o meno abortire in caso di gravidanza dovuta a violenza carnale. Se non si può, allo stesso modo acconsentiremmo anche a rimanere legati al violinista per tutta la vita, pur di non violare il suo diritto alla vita. Se invece si può, allora bisogna spiegare come mai tutte le persone hanno diritto alla vita, ma alcune ne hanno meno di altre, in particolare quelle la cui esistenza è dovuta a violenza carnale.
L’antiabortista coerente non vorrà ammettere eccezioni, nemmeno nel caso estremo in cui il proseguimento della gravidanza avrà come probabile conseguenza la morte della madre. L’argomento più comune a questo riguardo sostiene che eseguire l’aborto significherebbe uccidere direttamente il bambino, un innocente, mentre non far niente non comporterebbe l’uccisione della madre, ma solo lasciarla morire. L’argomento dovrebbe quindi proseguire affermando essere più cogente il dovere di astenersi dall’uccidere direttamente un innocente, rispetto a quello di salvare una persona dalla morte.
Non sembra però sensato l’affermare che la madre moralmente non possa abortire, che debba astenersi e attendere passivamente la propria morte. Tornando al caso del violinista, sarebbe come se ci dicessero che lo sforzo aggiuntivo cui sono sottoposti i nostri reni ci condurrà a morte nell’arco di un mese, ma che dobbiamo restare dove siamo, perché staccarci comporterebbe uccidere un violinista innocente.
Nel problema dell’aborto l’attenzione è stata sempre concentrata principalmente su quello che una terza parte può o non può fare in risposta a una richiesta di aborto da parte della donna, che, effettivamente, non può abortire da sola. In questo modo, però, quello che può fare la madre viene dedotto come conseguenza secondaria da ciò che viene concluso circa quello che la terza parte può fare. Trattare la questione in questo modo tuttavia significa rifiutare di riconoscere alla madre proprio quello status di persona su cui tanto si insiste per il feto: non possiamo stabilire quello che una persona può fare in base a quello che può fare una terza persona. La madre, la cui vita è minacciata, può difendersi dal feto, che la minaccia, benché sia lei sia il feto siano innocenti. Abbiamo infatti il diritto di autodifesa contro le minacce innocenti.
Per quanto riguarda l’obiezione che dei terzi non possano fare niente, vi è una ragione a favore della madre: il diritto a decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo interno, che si aggiunge al suo diritto alla vita minacciato dal feto. Il corpo è della donna, e questo le dà una ragione di vantaggio. Si è dimostrato, dunque, per quel che riguarda il caso estremo, non solo che la madre ha diritto a chiedere l’aborto, ma che ha più diritti ad abortire di quanti ne abbia il bambino a nascere.
Tuttavia vi è una questione interessante da non sottovalutare: si può rivendicare il diritto di rifiutarsi di esercitare violenza contro le persone, anche quando sarebbe giusto e equo farlo, anche quando la giustizia sembra richiedere che qualcuno lo faccia. Se due persone litigano per la proprietà di una delle due, la giustizia vuole che la proprietà rimanga al proprietario, ma io posso rifiutarmi di intervenire in suo favore.
Questa questione sarà più chiara se prenderemo in esame casi più comuni in cui una donna desidera abortire per ragioni meno urgenti della salvezza della propria vita. Sembrerebbe in questi casi che il diritto alla vita del bambino abbia un peso maggiore di qualsiasi altra ragione che la madre potrebbe avanzare per giustificare l’aborto. Occorre allora chiedersi: cosa significa avere diritto alla vita?
L’argomento contrario all’aborto tratta il diritto alla vita come qualcosa di non-problematico. Secondo questa concezione avere diritto alla vita include un diritto a ricevere lo stretto necessario per continuare a vivere. Ma supponiamo che ciò che di fatto è questo stretto necessario sia qualcosa su cui non si ha alcun diritto: se sto morendo e, per qualche ragione, l’unica cosa che può salvarmi è il tocco della mano di chi sta leggendo questo articolo, sarebbe estremamente gentile da parte del lettore venire a salvarmi, ma io non ho alcun diritto di pretendere che qualcuno faccia questo per me. Allo stesso modo, il fatto che il violinista abbia bisogno dei nostri reni, non prova che egli ne abbia diritto: sarebbe gentile concedergli l’utilizzo dei nostri reni, ma non siamo moralmente costretti a concederglielo.
Alcuni danno del diritto alla vita un’interpretazione più ristretta, in cui esso non comprende un diritto positivo a qualcosa, ma equivale al diritto di non essere uccisi da nessuno, ma allora, nuovamente, non si avrebbe il diritto di staccarsi dal violinista. Non si sostiene, ovviamente, che le persone non abbiano diritto alla vita, ma che questo diritto non comporta avere un diritto all’uso del corpo di un’altra persona, anche nel caso in cui ciò sia necessario per la vita stessa del beneficiario.
Siccome appare giusto staccare i fili al violinista in quanto non gli è stato concesso il diritto di usare i nostri reni e nessuno può concedergli un diritto siffatto, ma d’altra parte egli ha indubbiamente il diritto alla vita, possiamo revisionare la definizione del diritto alla vita nel modo seguente: esso non consiste nel diritto a non essere uccisi, ma piuttosto nel non essere uccisi ingiustamente. Benché si corra il rischio di circolarità, questo argomento permette di rendere compatibili il fatto che il violinista abbia diritto alla vita con il fatto che non si agisca ingiustamente nei suoi confronti staccandosi dall’apparecchiatura. Se si accetta questa revisione, occorre quindi dimostrare che uccidere il feto viola il suo diritto alla vita (revisionato), e quindi che l’aborto sia un’uccisione ingiusta. Ma la madre non può aver concesso a una persona non-nata l’utilizzo del suo corpo, al che privare l’utilizzo a tale persona sarebbe ingiusto. Tuttavia vi potrebbero essere altri modi per cui si può acquisire un diritto all’uso del corpo di un’altra persona, senza essere invitati a usarlo dalla persona in questione. Se una donna ha volontariamente rapporti sessuali con la consapevolezza della probabilità di restare incinta, sembra essere in parte responsabile per l’eventuale esistenza della persona non-nata dentro di lei. Ma se, in questo caso, non avesse il diritto di abortire, si può tornare a chiederci come potrebbe averlo se, pur avendo concepito volontariamente, può abortire per salvarsi la vita. Si può al massimo stabilire che l’aborto in alcuni casi è un’uccisione ingiusta. Ma se uno prende precauzioni, dimostrando così la propria non-disponibilità a che il proprio corpo venga usato da un feto, questo avrebbe il diritto al corpo della madre? Ma allora sarebbe come dire, nel caso di una gravidanza a seguito di violenza carnale (che assolutamente non sembra conferire un volontario diritto al corpo al feto), che la madre ha dato volontariamente al feto il diritto al suo corpo perché non è uscita di casa con un’arma affidabile, cioè con una precauzione affidabile.
Vi sono tuttavia dei casi dove sembrerebbe indecente staccare una persona dal nostro corpo a costo della sua vita: se occorresse stare solo dieci minuti attaccati al violinista per salvargli la vita, sarebbe contrario alla decenza rifiutarsi. Tuttavia non è “ingiusto” rifiutarsi, non più che rifiutarsi se dovessimo passare nove anni attaccati a lui. Io non ho il diritto che il lettore mi tocchi con la mano per salvarmi, anche se questi fosse nella mia stessa stanza. Certo non farlo sarebbe contrario alla decenza morale, e sommamente sgradevole. Tuttavia il fatto che uno “dovrebbe”, non implica che uno “debba”. Chi si rifiuta di concedere qualcosa di facile è egoista e insensibile e moralmente indecente, ma non ingiusto. Nessuno è quindi moralmente tenuto a sacrificare parti importanti della propria salute, o dei propri interessi e affetti, o dei propri doveri e impegni al fine di mantenere in vita un’altra persona.
Vi sono due specie di samaritani: il buon samaritano (quello della famosa parabola), e il samaritano minimale, cioè colui che soddisfa i criteri della decenza morale. In nessuno Stato dell’Unione si è costretti per legge a essere un samaritano sia pure minimale. Non c’è una legge in base alla quale accusare le trentotto persone che rimasero a guardare, senza intervenire, mentre Kitty Genovese veniva uccisa da un assassino. Per contro in molti Stati dell’Unione le donne sono costrette dalla legge a essere non solo samaritani minimali, ma anche buoni samaritani nei confronti delle persone non-nate dentro di loro. Forse, chi sostiene le leggi antiabortiste, farebbe meglio ad adoprarsi per l’adozione di leggi da buon samaritano in generale, o altrimenti a riconoscere la malafede delle sue azioni. Occorre ora però considerare l’eventuale intervento di terzi. Alla luce di quanto detto capiamo che un terzo, che consentisse a fare abortire una donna, agirebbe da samaritano nei suoi confronti: non ha il dovere di consentire, ma non c’è ingiustizia se acconsente.
Contro gli argomenti finora trattati si può obiettare che il feto non è una semplice persona, ma una persona nei confronti della quale la donna ha un tipo speciale di responsabilità, derivante dall’essere sua madre, mentre non c’è una simile responsabilità nei confronti del violinista. Sicuramente, però, non abbiamo nessuna “speciale responsabilità” per una persona a meno di non essercela assunta in modo esplicito o implicito. Tuttavia, se una coppia di genitori non cerca di evitare la gravidanza chiedendo l’aborto e al momento della nascita non dà il bambino in adozione ma lo porta a casa, allora ha assunto una responsabilità nei suoi confronti, gli ha concesso diritti e ora non può rifiutarsi di prendersi cura di lui, mettendo in pericolo la sua vita. Ma se la coppia aveva preso tutte le precauzioni possibili contro l’avere un bambino, non ha una speciale responsabilità per il bambino che viene all’esistenza semplicemente in virtù del loro rapporto biologico con lui. I genitori possono decidere di assumersi tale responsabilità, dimostrandosi buoni samaritani.
La Thomson conclude affermando che, mentre l’aborto non è moralmente inammissibile, non è tuttavia sempre ammissibile. Possono, infatti, ben esserci casi in cui portare a termine la gravidanza richiede alla madre solo un comportamento da samaritano minimale, e non bisognerebbe scendere sotto questo standard, per esempio chiedendo l’aborto al settimo mese solo per evitare la seccatura di rinviare un viaggio all’estero.
Beniamino Peruzzi
Un ringraziamento al professor Ian Frank Carter
Con amicizia letto da Arnaldo Mitola
Bibliografia
JJ. Thompson, “Una difesa dell’aborto”, in G. Ferranti e S. Maffettone (a cura di), Introduzione alla bioetica, Liguori, Napoli, 1992, pp. 3-24
Immagine
P. Picasso, Violino e uva