Che i britannici abbiano da sempre mostrato qualche perplessità nei confronti dell’integrazione europea è cosa nota. Benché l’euroscetticismo sia un fenomeno che comprende, seppure con le dovute oscillazioni, tutti i paesi dell’odierna Unione europea, questo sentimento è percepito più intensamente dal popolo britannico ed è promosso anche a livello politico ed istituzionale. Esso viene spesso attribuito alla crisi finanziaria che ha investito il continente e colpito l’economia reale, con pesanti ricadute su risparmiatori, lavoratori e giovani in cerca di un impiego, ma ciò spiega solo in parte come mai sia presente con particolare rilievo nel Regno Unito, che non ha aderito alla moneta unica ed è stato colpito in misura minore rispetto ad altri stati europei. Piuttosto, l’euroscetticismo britannico, come si tenterà di argomentare nel presente articolo, affonda le sue radici in un tempo e in un contesto anteriore alla crisi e si è acuito negli anni del governo Thatcher.
L’euroscetticismo indica una forma di opposizione al principio di integrazione europea, al suo assetto istituzionale corrente, ai suoi piani di ampliamento e di integrazione futuri mirati alla costruzione di una Europa-nazione. Esso si distingue dall’antieuropeismo che si riferisce più in generale all’ostilità nei confronti della cultura, della storia e delle opinioni del popolo europeo. Le cause e le origini dell’euroscetticismo britannico sono state al centro di numerosi dibattiti. Al momento della fondazione della Comunità economica europea i britannici non aderirono, secondo lo storico Tom Buchanan, a causa di una innata antipatia nei confronti del progetto europeo, e della convinzione, manifestata con un certo paternalismo, che il fallimento della Comunità europea di difesa nel 1954 avesse dato il colpo di grazia alle velleità europeistiche dei paesi promotori. Il Regno Unito aderì all’Associazione europea di libero scambio, intesa come modello alternativo e meno invadente di cooperazione economica, a patto che il modus operandi rimanesse strettamente intergovernativo. Seguirono anni di tiepido consenso all’integrazione europea finché nel 1973 la Gran Bretagna sottoscrisse la propria membership alla Comunità.
Dal 1979, anno del suo insediamento a 10 Downing Street, Margaret Thatcher avviò una politica europea che certamente ha rafforzato l’euroscetticismo britannico. Thatcher fu continuamente, e soprattutto nel corso del suo mandato, una convinta sostenitrice dell’esigenza di marcare le distanze dalla Comunità europea a difesa della sovranità nazionale e della completa indipendenza degli stati membri dalle istituzioni europee, che proprio a cominciare dagli anni Ottanta acquisirono un maggiore margine di manovra. Considerava una Unione europea a carattere sovranazionale una mera utopia che potesse mettere a repentaglio la società britannica, la sua libertà e il suo stile di vita, ma soprattutto la sua identità, come evidenziato dal “discorso di Bruges” del 1988: “Certainly we want to see Europe more united and with a greater sense of common purpose. But it must be in a way which preserves the different traditions, parliamentary powers and sense of national pride in one’s own country”. Queste parole sono esplicative della sua posizione in campo identitario e il timore di un ridimensionamento del ruolo del Regno Unito sulla scena mondiale.
I disagio reciproco tra il Regno Unito e il resto del Continente è frutto di numerosi fattori. Già nel 1963 il Generale de Gaulle asserì che “the nature, structure, circumstances peculiar to England are very different from those of other continentals” e chiese perciò: “How can Britain be incorporated in the Common Market as it has been conceived and functions?”. Non mancarono gli screzi con i singoli stati membri, ad esempio con la Francia, presieduta all’epoca da François Mitterand, il cui socialismo, abbinato all’entusiasta politica europeista, era agli antipodi con il liberismo, la privatizzazione di numerosi settori pubblici, e l’euroscetticismo thatcheriani. La fervente opposizione di Thatcher alle richieste delle istituzioni europee, in particolare alla Commissione di Jacques Delors, consentì al paese di ottenere un importante rimborso nel 1984 (il cosidetto British rebate), ma presto allontanò molti colleghi europei come, ad esempio, l’allora cancelliere tedesco Helmut Schmidt che la definì “alienated”. La “questione britannica” fu infatti uno degli episodi che maggiormente aggravò i rapporti tra Regno Unito e il resto della Comunità. Il rimborso era, a parere di Thatcher, una giusta pretesa: “We are simply asking to have our own money back”. Sebbene Thatcher fosse riuscita ad ottenere quanto richiesto, l’intransigenza e scarsa diplomazia mostrate nei confronti dei tentativi di conciliazione degli altri leader europei determinarono il suo declino. “Her views on Europe would eventually be her downfall as the pro-European members of her Cabinet ousted her,” ricorda l’ex-commissario europeo Peter Sutherland. Ancora oggi, il disprezzo dei britannici verso l’Unione è corrisposto, come sostiene il giornalista Charles Grant con implicito riferimento al governo Thatcher: “Years of British leaders preaching arrogantly about the success of their economic model, a penny-pinching approach to the EU budget and a consistently negative attitude […] have left their mark”.
L’euroscetticismo britannico può dunque essere considerato una derivazione della politica thatcheriana, la cui idea per un’Europa unita era circoscritta al libero scambio economico, e ad un rapporto politico tra i governi europei privo dell’interferenza di istituzioni sovranazionali. La mancanza di un’identità europea, di una comunanza di ideali, di un sentimento condiviso di appartenenza, ma soprattutto la scarsa legittimità dell’Unione europea agli occhi dei cittadini, hanno stimolato l’euroscetticismo, come dimostrato da studi recenti dell’Eurobarometro riportati nell’articolo dello studioso Michael Bruter. Ma anche il ruolo dei media britannici è stato fondamentale: “the media does not seek to educate the British people on how they benefit from the European Union”, scrive Grant. E sul piano istituzionale la classe politica britannica pullula di esponenti euroscettici come, ad esempio, gli europarlamentari Nigel Farage e Martin Callanan, del Gruppo dei Conservatori e dei Riformisti Europei, le cui arringhe, in cui non a caso rievocano le parole di Thatcher, stanno riscuotendo un successo impressionante. Per comprendere l’impatto generato dai media e dalla classe politica basta volgere lo sguardo alle elezioni del maggio 2014 in cui partiti euroscettici – lo United Kingdom Independence Party in primis – hanno conseguito risultati vertiginosi e cambiato sostanzialmente la composizione del Parlamento europeo.
Attualmente, in base all’analisi degli scienziati politici Liesbet Hooghe e Marks, si possono identificare due principali istanze nel panorama dell’euroscetticismo, inteso come sentimento che abbraccia l’Europa e attraversa l’intero spettro politico: la prima radicata nella minaccia culturale, la seconda alimentata dalla pesante recessione degli ultimi anni. Ma a prescindere dalle cause scatenanti e dai meccanismi che muovono questo fenomeno nell’opinione pubblica, molti britannici rimpiangono di non aver dato ascolto alle avvertenze su un possibile deterioramento del progetto d’integrazione europea, che la Lady di Ferro, “peccando” di euroscetticismo, aveva tuttavia perspicacemente anticipato, e che oggi più che mai sembra materializzarsi per via di un’Europa che fatica ad unire le forze dinanzi alle criticità globali e i cui cittadini sono sempre più sfiduciati.
Maria Elena Sandalli
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Immagine: http://www.economist.com/blogs/economist-explains/2014/03/economist-explains-1