Convenienza affettiva – Le categorie secondo Bruner e Brown

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La psicologia negli anni tra il 1950 ed il 1960 ha cercato di dare una risposta definitiva e obiettiva alle categorie percettive, che fino a quel momento erano state di dominio quasi esclusivo della filosofia, ma cosa sono le categorie percettive? Sono il nostro modo di classificare, categorizzare, ridurre e ordinare il mondo che ci circonda. Queste sono state ampiamente esplicate e studiate da un gruppo di psicologi che le hanno sintetizzate dal ventaglio di studi presenti sull’argomento nel 1956 dando il via alla rivoluzione cognitivista. I principali nomi presenti in questo gruppo erano appunto Bruner e Brown, particolarmente attivi anche in molti altri studi compiuti negli anni precedenti sulla categorizzazione e le strategie di formazione dei concetti. Sul nostro modo di categorizzare possiamo appunto dire che inizia dal riconoscimento della configurazione degli attributi di un oggetto, continua con la risposta provocata nell’individuo che categorizza (cui d’ora in avanti mi riferirò con il nome di “osservatore”), e termina con l’inserimento dell’oggetto in una categoria esistente, in una categoria nuova o modificando i criteri di una categoria preesistente. Un esempio è dato dal riconoscimento di una mela per i suoi attributi  di forma, colore e sensazione tattile che corrispondono ad un modello di mela (inteso appunto come configurazione di attributi) presente nel nostro cervello, già precedentemente classificato in “tutto ciò che è definibile come mela” o per fare un altro esempio “tutte le possibili configurazioni che può assumere la luna”. Si possono definire due grandi tipi di categorie esplicabili dai due esempi appena citati, quelle di equivalenza e quelle di identità. Parliamo di categorie di equivalenza quando nell’osservatore viene evocata una stessa risposta ad oggetti diversi che vengono percepiti come “la stessa sorta di cose”. Parliamo di categorie di identità quando le diverse configurazioni di uno stesso oggetto portano a riconoscerlo da risposte differenti come per l’esempio lunare “riconosciamo la luna a prescindere dalla sua attuale forma o prospettiva”. Andiamo adesso più nello specifico delle categorie di equivalenza in quanto quelle di identità non necessitano qui di un ulteriore approfondimento.

 Le categorie di equivalenza sono quelle che basandosi su una comune risposta, consentono una classificazione degli oggetti per attributi in comune. È possibile infatti riconoscere un tavolo dalla comune risposta provocata nell’osservatore dalla configurazione dei tratti dell’oggetto. Esistono tre insiemi di categorie di equivalenza: affettive, funzionali  e formali. Le categorie affettive sono quelle che si formano in seguito alle sensazioni preverbali della prima infanzia e ci permettono di dire se un paesaggio è bello o di interpretare un quadro in senso artistico, o di avere fede. Come si nota questa classe di categorie non si basa su attributi riconducibili alle proprietà degli oggetti, ma piuttosto alla comune risposta affettiva provocata nell’osservatore. Le categorie funzionali invece racchiudono lo stesso genere di cose in base alla funzione dei loro attributi. Un esempio classico di tale insieme è “tutti gli oggetti che posso utilizzare per scaldare dell’acqua per la pasta” che possono poi essere riconvertite alla categoria formale: pentola. Infatti le categorie formali sono quelle convenzioni che ci permettono di formalizzare un oggetto dalle categorie precedenti. A partire da una funzione come “tutto ciò che può servire a piantare un chiodo” si passa al concetto di “martello”. Queste categorie hanno la caratteristica di poter stabilire una divisione tra classi di oggetti senza necessariamente esplicarne la funzione. Queste portano alla creazione di quasi ogni cognizione artificiale e convenzionale nell’umano. È ovvio che esistono strette relazioni tra questi tre tipi di categorie e che spesso le une possono convertirsi alle altre. Il modo di categorizzare uno stesso oggetto è dato quindi da una spinta interna al soggetto che corrisponde spesso alle esigenze cognitive o ai bisogni della persona; tralascio questo punto in quanto troppo dispersivo, concentrandomi solo sulla categorizzazione. Cercherò comunque di riassumere perché categorizziamo in un modo invece che in un altro con una citazione di Stevens: “lo scopo della scienza è quello di inventare descrizioni dell’universo che funzionino (…) inventiamo sistemi logici i cui termini sono usati per denotare aspetti distinguibili della natura, formulando descrizioni del mondo per come lo vediamo e secondo la nostra convenienza (…) lavoriamo così perché non possiamo lavorare diversamente.” Lo studio di questi atti di invenzione rientra nella competenza dello psicologo, pertanto Stevens chiama la psicologia “la scienza propedeutica”.

 Nel senso più generale ci rendiamo conto che la categorizzazione è presente ovunque nella nostra vita quotidiana, non possiamo prescindere dall’aggruppamento e dall’ordinamento dei materiali in classi di equivalenza. Queste operazioni sono presenti nel giudizio, nella memoria, nella soluzione dei problemi, nel pensiero inventivo e nell’estetica, per non parlare della percezione e della formazione dei concetti. Perché quindi categorizziamo? Ci sono quattro motivi principali. Il primo è la necessaria riduzione della complessità dell’ambiente che ci circonda, poiché se dovessimo vedere ogni stimolo presente nell’ambiente impazziremmo subito, inoltre sarebbe inutile e l’essere umano è un organismo che tende a funzionare secondo principio di economia. Il secondo è il cercare di identificare in un tempo utile gli oggetti del mondo intorno a noi: immaginate quanto tempo ci vorrebbe per riconoscere un pericolo senza farlo rientrare in una categoria di “cose pericolose”: semplicemente non sarebbe possibile. Il terzo motivo è che riduce la necessità di un costante apprendimento delle stesse cose, infatti l’astrazione delle proprietà definenti di una categoria le rende riutilizzabili per futuri atti di categorizzazione. Il quarto motivo è che fornisce una direzione a qualsiasi attività strumentale o funzionale all’individuo dando una categoria di cose verso cui agire in corrispondenza delle nostre esigenze. L’ultimo motivo è la possibilità di ordinare, rapportare e prevedere le conseguenze di determinate classi di eventi operando tramite sistemi e configurazioni di categorie e attributi.

 Eppure oltre i detti motivi c’è un ultimo aspetto da indagare brevemente: come convalidiamo le nostre categorie? Questo è il punto fondamentale a cui miravo con questa introduzione alla categorizzazione psicologica, che mi ha aperto ad un nuovo modo di interpretare la comunicazione. Ci sono quattro modi in cui le persone affermano e sostengono il proprio modo di vedere il mondo: facendo ricorso ad un criterio ultimo di validità, controllando quanto la categoria creata è coerente con il contesto, controllando il consenso che giunge dalle persone confermando la convinzione in modo proporzionale al loro numero e alla loro credibilità, ed infine il controllo mediante la convenienza affettiva. Mi pare scontato che alcuni dei nostri mezzi di convalida siano la causa del maggior numero di incomprensioni e problemi di comunicazione derivanti dalla formazione dei concetti delle persone. Vi lascio con una domanda: se tutti conoscessero l’origine e le modalità di formazione dei loro concetti e le loro convinzioni, quanta credibilità e verosimiglianza si attribuirebbero? Quanto verrebbe loro voglia di farsi la guerra per “convenienza affettiva” invece che per religione?

Andrea Piazzoli

Bibliografia

J. S. BRUNER, R. W. BROWN, Il pensiero strategie e categorie, titolo originale “A study of thinking”, Fabbri Publishing s.r.l., Milano 2014

Immagine

http://www.ivid.it/foto/cinema/Cartone-Animato/2007/Ratatouille/429308/scena/scena–Brad-Bird-Jan-Pinkava

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