Emancipazione e utilitarismo – La parità di genere nel pensiero di John Stuart Mill

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La questione femminile in John Stuart Mill (1806-1873) è molto sentita, e contribuiscono alla formazione del suo pensiero ideologico e politico tre fattori: anzitutto il disagio familiare in cui cresce e in particolare la durezza con cui suo padre tratta sua madre; dopodiché, un episodio della sua adolescenza che lo tocca profondamente quando, nel 1823, viene tenuto una notte in carcere per aver distribuito alle operaie che uscivano da una fabbrica dei volantini che invitano ad un controllo responsabile delle nascite; e soprattutto il rapporto, anticonformista e fonte di aspre critiche da parte dell’opinione pubblica, con Harriet Taylor, già sposata ai tempi della sua relazione con Mill e, come lui stesso la definisce, “the inspirer, and in part the author, of all that is best in my writings”. Per tutta la durata della sua breve ma intensa carriera politica Mill si batte per estendere il suffragio alle donne. La parità di genere viene da lui considerata condizione imprescindibile al buon governo, in cui regna la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali.

L’utilitarismo è la teoria di base del pensiero milliano. Come scrive nell’omonima opera, “Utilitarianism, or the Greatest Happiness Principle, holds that actions are right in proportion as they tend to promote happiness, wrong as they tend to produce the reverse of happiness. By happiness is intended pleasure, and the absence of pain; by unhappiness, pain, and the privation of pleasure.” Naturalmente, Mill recepì l’insegnamento filosofico di Jeremy Bentham (che conobbe di persona); tuttavia, mentre per Bentham i piaceri si distinguono in base all’intensità, la durata e, in particolar modo, alla quantità, Mill afferma, “It is quite compatible with the principle of utility to recognise the fact that some kinds of pleasures are more desirable and more valuable than others. It should be absurd that the estimation of pleasures should be supposed to depend on quantity alone.” In altre parole, per Mill, è la qualità del piacere ad essere decisiva, a prescindere dalla sua quantità. Prima di esaminare la questione femminile mi soffermerò sul principio utilitaristico con particolare riferimento all’ultimo capitolo, “On the Connection between Justice and Utility,” di Utilitarismo (1861). Questo perché l’eguaglianza di genere e l’attribuzione dei diritti senza distinzione di sesso sono, nella stessa concezione milliana, concrete forme di giustizia.

Il rapporto tra giustizia e utilità sociale può, a prima vista, sembrare discordante: l’individuo, che per sua natura è egoista, nel perseguire il suo utile – ciò che gli dà il massimo piacere – lo farà a discapito degli altri, perché porrà il suo obiettivo in primo piano. Mill, al contrario, argomenta come in realtà siano concetti indissolubili e interdipendenti e richiama l’assioma benthamiano: “It is the greatest happiness of the greatest number that is the measure of right and wrong.” Sottolinea inoltre come gli individui debbano legittimamente chiedere allo Stato di proteggere i diritti fondamentali in quanto finalizzati al benessere comune. Ogni individuo ha infatti il diritto di esigere che lo Stato lo protegga da possibili ingiustizie; a questo dovere lo Stato può ottemperare in due modi: tramite la forza della legge (imponendo sanzioni per chi vìola un diritto altrui) e tramite la diffusione della consapevolezza che l’osservanza dei diritti è proporzionale ad un aumento della felicità. Mill scrive: “To have a right, then, is, I conceive, to have something which society ought to defend me in the possession of. If the objector goes on to ask, why? I can give him no other reason than general utility.” L’argomento, quindi, non è di natura etica o moralistica; i diritti esistono non per volontà di Dio (come afferma il giusnaturalismo scolastico di Tommaso d’Aquino) o perché fondati nella metafisica, ma per il loro inscindibile legame con l’utilità. La giustizia affonda le sue radici nell’utilità sociale.

In primo luogo, la giustizia scaturisce con intensità dal desiderio di ritorsione: “The primitive and spontaneous sentiment of justice [is] the lex talionis, an eye for an eye, a tooth for a tooth”; la sicurezza, l’autodifesa, l’istinto di sopravvivenza rendono la tutela dei diritti uno dei principali interessi dell’uomo. L’interesse legittimo designa una situazione in cui l’interesse del singolo coincide con l’interesse della collettività (in quest’ottica Mill dice che l’esercizio della giustizia porta alla felicità del maggior numero). Da dove nasce quest’interesse collettivo se non dall’utilità, dal premio di felicità e serenità, che viene accordato al maggior numero quando lo Stato si assume la responsabilità di salvaguardare i cittadini dalla violenza e dal sopruso? Quanto alla pena da infliggere al criminale, Mill afferma che “It is not just, at least for a man, to inflict on a fellow creature, whatever may be his offences, any amount of suffering beyond the least that will suffice to prevent him from repeating, and others from imitating, his misconduct”: la pena, quindi, non deve essere spietata per senso di vendetta, ma deve essere giustamente severa al punto da conseguire l’utilità sociale, ossia la certezza che il colpevole non ripeta l’azione e che non venga imitato. L’utilitarismo ripudia l’ingiustizia perché questa impedisce che si consegua l’utilità sociale. Passiamo quindi alla relazione tra emancipazione e utilità: la libertà della donna come presupposto essenziale al progresso umano.

“The legal subordination of one sex to the other is wrong in itself, and one of the chief hindrances to human improvement; and it ought to be replaced by a principle of perfect equality, admitting no power or privilege on the one side, nor disability on the other.” La parità di genere è, per Mill, una forma elementare di giustizia. Ma in età vittoriana si trattava di un’opinione nettamente minoritaria; la subordinazione delle donne all’interno delle mura domestiche si rifletteva nella sfera pubblica: a loro era negato il diritto di voto nonché l’accesso alle cariche pubbliche. La servitù delle donne è un’opera destinata a scardinare la tesi dell’incapacità femminile, a demolire i pregiudizi che fino all’epoca di Mill, e ben oltre, l’hanno appoggiata.

Mill si sofferma innanzitutto sul ruolo della donna all’interno della famiglia, alveo della vita quotidiana in grado di trasformare l’individuo in attore sociale. Come avrebbe scritto, oltre un secolo dopo Mill, la femminista Susan Moller Okin: “Family justice must be of central importance for social justice. Unless the households in which children are first nurtured, and see their first examples of human interaction, are based on equality and reciprocity rather than on dependence and domination, how can whatever love they receive from their parents make up for the injustice they see before them in the relationship between these same parents?” Parole, queste, che ricordano quelle di Mill: “The moral training of mankind will never be adapted to the conditions of the life for which all other human progress is a preparation, until they practice in the family the same moral rules.” Sempre secondo Mill la condizione di presunta inferiorità della donna si consolida con il matrimonio (“marriage [is] the destination appointed by society for women”) tramite il quale l’uomo entra in pieno possesso di tutto ciò che è suo. Persino i figli, nonostante rimangano sotto le cure della madre per buona parte dell’infanzia e dell’adolescenza, “are by law his children. He alone has any legal rights over them.”

Al di là delle convinzioni ideologiche, il valore e l’aspetto rivoluzionario del pensiero di Mill si trova nella seguente domanda: “Would mankind be at all better off if women were free?” Innanzitutto, scrive l’autore, “The sufferings, immoralities, evils of all sorts, produced in innumerable cases by the subjection of individual women to individual men, are far too terrible to be overlooked.” La donna che viene sottoposta al dominio maschile soffre in innumerevoli modi; e il dolore, afferma Mill, è un chiaro ostacolo al progresso, particolarmente se consideriamo il ruolo essenziale che la donna detiene nell’assicurare il perpetuarsi della società. Decenni prima, la filosofa Mary Wollstonecraft, connazionale di Mill e antesignana del femminismo liberale, nota soprattutto per il suo libro Rivendicazione dei diritti della donna (1792), scriveva: “Speaking of women, their first duty is to themselves as rational creatures, and the next, in point of importance, as citizens, is that of a mother,” e, nonostante non faccia mai espresso riferimento all’utilitarismo, i principi base della dottrina sono ricorrenti: l’estensione dei diritti serve a rendere l’umanità “more virtuous, and happier of course” e a conseguire “more extensive plans of usefulness and independence.” Il seme malato dell’ineguaglianza è un freno alla soddisfazione familiare e alla buona educazione dei figli poiché rende le donne “very unfit to manage a family” e l’infelicità le induce alla svogliatezza, con conseguenze deleterie sui figli e sulla società futura. La disparità tra i sessi è, quindi, moralmente sbagliata e ingiusta, ma anche e soprattutto controproducente.

Mill prosegue: “The second benefit to be expected from giving to women the free use of their faculties, by leaving them the free choice of their employment, and opening to them the same field of occupation and the same prizes and encouragements as to other human beings, would be that of doubling the mass of mental faculties available for the higher service of humanity.” Questa osservazione, prettamente positivista (il lungo rapporto epistolare tra Mill e Auguste Comte portò ad un proficuo scambio di idee) indica gli evidenti benefici che deriverebbero dal concedere alle donne la stessa istruzione degli uomini, uno stimolo al progresso, maggiori risorse intellettuali, anche grazie al fatto che le donne possiedono, per loro natura, oltre alla ragione, “a totally different class of virtues – those of gentleness, generosity, self-abnegation and aversion to war” che metterebbero a frutto nel mondo del commercio, della politica e della speculazione filosofica e scientifica. Ma il vantaggio sociale che più si accosta alla tesi di Mill è “the unspeakable gain in private happiness to the liberated half of the species; the difference to them between a life of subjection to the will of others, and a life of rational freedom.” La felicità, colonna portante della dottrina utilitaristica, di cui anche le donne godranno una volta che diritti e libertà verranno loro estesi, rappresenta un indispensabile incentivo al progresso.

Una società retrograda è un’offesa alla dignità di ciascun individuo, ma soprattutto un oltraggio a chi in tempi passati ha fatto la storia, investendo tempo, risorse, energie – in molti casi la vita intera – per arricchire e valorizzare l’umanità. Mill insiste, malgrado l’ottimismo e gli sviluppi della sua epoca: “The moral regeneration of mankind will only really commence when social relations [are] placed under the rule of equal justice.” Parità di genere e utilità sociale sono, dunque, concetti inseparabili nel pensiero milliano. In Utilitarismo Mill delinea il rapporto tra giustizia e utilità, mentre ne La servitù delle donne egli considera la libertà della donna – all’interno della famiglia e poi nella sfera pubblica – una forma essenziale di giustizia ed espone i vantaggi che l’umanità ne trarrebbe. La felicità e il piacere non solo verrebbero raddoppiati, ma spronerebbero l’umanità a migliorarsi, dal momento che “every restraint on the freedom of conduct of any of their human fellow-creatures dries up the principal fountain of human happiness, and leaves the species less rich in all that makes life valuable to the individual human being.”

Maria Elena Sandalli

Bibliografia:

BENTHAM, Jeremy, A Fragment on Government, The Lawbook Exchange Ltd, Union City 2001 (ed. or. London 1776).

MILL, John Stuart, a cura di Alan Ryan, On Liberty and The Subjection of Women, Penguin Books, London 2006.

MILL, John Stuart, Utilitarianism, Batoche Books, Ontario 2001 (ed. or. 1863).

MOLLER OKIN, Susan, Justice, Gender and the Family, Basic Books, New York 1991.

WOLLSTONECRAFT, Mary, A Vindication of the Rights of Woman, Bartleby.com, New York, 1999 (ed. or. Peter Edes, Boston 1792).

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