Chiunque concorderà nell’affermare che vivere, in fin dei conti, è una gran fatica. Se non altro perché, di questa sofisticatissima stoffa ricamata che è l’esistenza, non ci è concesso di vedere il rovescio, il lato in cui i fili si intrecciano, che sarà pure meno gradevole, ma risulterebbe decisamente più significativo. E’ per questo che, talvolta, la filosofia antica sembra essere un paradiso: ti si consegnano le chiavi della felicità, e sono così tante, e dai profili così diversi, che non hai che l’ imbarazzo della scelta. Parliamo di un tempo in cui la filosofia é formazione più che mera informazione e, nello scenario attuale, in cui gli studenti che riescono a pronunciare parole come “il mio maestro” sono sempre meno, sentir parlare di uomini che con impegno radicale si dedicano a quella missione estrema e totale che è rendere migliore l’umanità, strappa sempre un sorriso. Il più delle volte ironico, in un contesto in cui l’equazione valore/profitto è regola. Le testimonianze ci tramandano un’etica che non si logora su inesauribili dilemmi morali ma assume un tratto consolatorio tipico del consiglio o dell’aiuto. La cosiddetta arte della vita, secondo quanto il puntuale lavoro interpretativo di Pierre Hadot ci trasmette, si imparerebbe praticando quotidianamente degli esercizi spirituali. E’ opportuno ora lasciare da parte la nozione religiosa che il termine richiama, e che peraltro gli è debitrice di parte dell’attuale significato, così come il termine “ascesi”, ormai cristianizzato nel senso di “autolimitazione”, “repressione delle inclinazioni impulsive”, deriva appunto da askesis, il cui equivalente latino, exercitatio, ci aiuta a recuperare la dimensione di attività abituale, ormai persa a favore del significato di “meditazione” e “riflessione scrupolosa”. Per esercizi spirituali qui intendiamo pratiche di vario tipo come la ripetizione di soliloqui filosofici per realizzare il distacco da sé, anticipazioni immaginative per esorcizzare e neutralizzare la paura, tecniche di scrittura o lettura, elaborazione di un repertorio di massime brevi da tener sempre pronte all’occorrenza “così come un medico ha sempre sotto mano i ferri e gli strumenti per cure improvvise”, ammoniva Marco Aurelio. Trasformando questi atteggiamenti razionali in un’abitudine stabile, personale e duratura si garantiva la possibilità di diventare individui capaci di affrontare la vita, spiritualmente grandi e, in ultima analisi, felici.
E’ pur vero che questa idea di filosofia come arte della vita non è certo banalmente estensibile a tutti i filosofi che abbiano una vaga aura di vetustà: nel caso dei presocratici, ad esempio, la tesi di Hadot può essere difficilmente confermata. Socrate, invece, intende la felicità come il naturale risultato di una “vita buona”, moralmente giusta, per cui la virtù risulta essere tanto necessaria quanto sufficiente. Di qui sorge anche il suo pregiudizio ottimista nei confronti della natura umana; afferma infatti che “nessuno fa il male volendolo”, sostenendo che l’errore comportamentale possa essere ricondotto solo all’ignoranza del vero bene: perché qualcuno dovrebbe evitare ciò che per lui stesso rappresenta l’opzione di vita migliore? Evidentemente perché la promessa di un piacere immediato offusca una prospettiva più lungimirante ed efficace. Potremmo ora valutare frettolosamente la distanza di questa posizione dalla concezione giudaico-cristiana: se prima di addentare il frutto nell’Eden l’uomo aveva la possibilità di condurre un’ esistenza priva di peccato, ora questa opportunità si è brutalmente infranta, l’errore è sicuro e ineliminabile.
Ma torniamo ora all’orizzonte greco; Platone sostiene che la felicità derivi necessariamente da una costituzione adeguata dell’anima, resta decisamente convinto, però, che sia felice chi vive “bene”, fondando così una teoria teleologica della felicità secondo la quale essa è fine ultimo e supremo del nostro desiderare. Aristotele include anche i beni esterni -ricchezza, salute, onore e altri- nella lista di fattori che concorrono alla realizzazione di una vita felice, ribadendone però lo status di elementi necessari ma non sufficienti: non differentemente da Platone, ritiene che la dimensione teoretica sia fondamentale e quindi superiore rispetto a quella etico-politica. I virtuosi stoici, invece, pervenendo all’apatheia, si liberano dalle passioni e dai giudizi erronei a cui esse conducono per aspirare soltanto a ciò che garantisce un’ esistenza autentica. Epicuro, lontano dall’essere un grossolano gaudente, promette l’equilibrio dell’anima e la tranquillità interiore attraverso un percorso del tutto ascetico di ricerca del vero piacere, raggiungibile soltanto nello stato successivo alla scomparsa del dolore. Di qui il noto tetrafarmaco, che libera l’uomo dalle oscure inquietudini che è solito procurarsi: timore degli dei, paura della morte, irraggiungibilità del piacere e ansia per il dolore fisico. Quanto mai attuale risulta lo stimolo epicureo per discutere se sia davvero la paura di morire ad affliggere l’ esistenza umana o forse proprio la consapevolezza di un’ intrinseca mortalità a rendere la vita più dolce. Ma questa é un’altra storia. Per gli scettici, la loro stessa modalità filosofica rappresenta la via maestra per la felicità: Sesto Empirico afferma che proprio la sospensione del giudizio, la rinuncia a cercare qualcosa di “oggettivamente” buono conduca verso l’imperturbabilità, il che implica una felicità raggiungibile solo a condizione di non perseguirla.
Quanto esposto finora ai contemporanei dice poco, quasi nulla. Potrebbe risultare di qualche interesse da un punto di vista meramente nozionistico, tuttavia si svuota di senso perché la felicità degli antichi non è la nostra. O almeno, non lo è più. Ma la perdita del modello dell’ arte della vita non ha molto a che fare con la tanto demonizzata strumentalizzazione altomedievale di una filosofia che diventa ancilla theologiae. Alla modernità é cara la felicità delle emozioni, tutta soggettiva, psicologica, privata e intima. Gli antichi amano, invece, l’oggettiva felicità della realizzazione del sé. Parlano di eudaimonia perché solo avendo un buon daimon si potrà condurre una vita di salute e benessere, appagante, degna di lode e conforme ai desideri. Ma l’altra faccia di questa lucente medaglia é il terribile paradosso di Solone, per il quale una vita, per dirsi felice, deve essere costellata di circostanze favorevoli per tutta la sua durata. Eppure questo significherebbe che nessuno possa proclamarsi felice prima della propria morte – perché potrebbe ancora sopraggiungergli una sventura – e quindi, a rigor di logica, che nessuno in generale possa essere felice, o almeno, non da vivo. Ma avrà davvero senso che ad un defunto venga assegnata la patente della felicità da chi gli è sopravvissuto? Avrà davvero senso applicare la nozione di felicità alla vita degli uomini retrospettivamente? Forse si, finché essa resta una conquista oggettivamente determinabile. E allora sarà facile condividere la critica di Martha Nussbaum ad una tradizione socratico-platonica che propone all’individuo un autoperfezionamento calcolato e categoricamente immune da fragilità e sventure della vita reale. Siamo oggi avvezzi, invece, a prospettarci un’ esistenza che sia un modello aperto, estremamente mutevole, all’interno del quale agiscono casi fortunati e circostanze drammatiche ineliminabili. La ragione é solo un attore fra tanti. Ad Aristotele andrebbe quindi il merito di aver accordato fondamentale importanza ai tratti oscuri e deboli della vita umana, di aver contemplato l’esistenza di movimenti irrazionali, di aver costruito un modello di eudaimonia che dipenda fortemente da circostanze esterne. Se quindi la predilezione della Nussbaum si rivolge allo Stagirita, ritenere che esista nell’antichità un secondo modello di filosofia della felicità, categoricamente distinto agli altri, identificabile proprio con quello aristotelico, ecco, sembra una sintesi un po’ malaccorta. Concluderemo che la più grande preoccupazione degli antichi sembra essere la preparazione degli uomini alla vita, ma a noi moderni non resta solo il marchio infamante del disimpegno. Né la vita né la felicità come le intendiamo potranno mai essere insegnate. E se con Erasmo dovremo dire che “é l’intelletto superficiale che non presta all’antichità la dovuta reverenza”, non saremo superficiali, ma nemmeno pedanti e nostalgici imitatori.
Costanza Brighina
Bibliografia
Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica , Einaudi, 2005
Christoph Horn, L’arte della vita nell’antichità ,Carocci, 2004