Nel precedente articolo abbiamo esaminato i problemi che Rawls si pone nella ricerca di una società giusta, e le caratteristiche della “posizione originaria”. Vediamo ora su che principi si fonderebbe la società giusta rawlsiana.
Secondo Rawls, dal contratto ipotetico scaturirebbero due fondamentali principi di giustizia. Per prima cosa, trovandoci nella posizione originaria e coperti dal velo di ignoranza, non sceglieremmo principi utilitaristici, che potessero giustificare il sacrificio di alcuni per il bene degli altri: ognuno di noi sa che gli potrebbe capitare di appartenere a una minoranza oppressa e, quindi, eviterà di consentire che ciò possa avvenire nella società che fonda. Il primo principio di giustizia, dunque, assicura a tutti i cittadini le libertà fondamentali e paritetiche (parola, coscienza, religione, ecc.), e recita: ogni persona ha eguale diritto al più esteso schema di eguali libertà fondamentali, compatibilmente con un simile schema di libertà per gli altri.
Non sceglieremmo neanche principi etici libertari, secondo i quali ognuno è libero di disporre come vuole delle proprie proprietà. In tal caso, infatti, non sarebbe legittimo nessun intervento paternalistico da parte dello Stato, ovvero non sarebbero legittimati aiuti agli svantaggiati, poiché lo Stato non avrebbe il diritto di forzare nessuno a condividere i propri beni con gli altri. Ognuno sa che potrebbe ritrovarsi a essere un senzatetto e dunque comprende che è meglio evitare un sistema che lasci qualcuno privo di mezzi e soccorsi. Il secondo principio riguarda perciò l’uguaglianza sociale ed economica. Tuttavia, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, questo principio non prevede una distribuzione eguale del reddito a tutti i cittadini. I nostri contraenti nella posizione originaria potrebbero infatti trovare una soluzione migliore, che potesse far fronte alle varie critiche (come quella dell’incubo egualitario di Harrison Bergeron), che fosse più efficiente, e che fosse meglio applicabile alla realtà. Su questo ultimo punto è bene effettuare una specificazione: Rawls, nella sua formulazione della teoria della giustizia, aderisce a un’idea di utopia realistica. Parte infatti dall’osservazione di come l’uomo sia nella società reale, e osserva che la distribuzione in questa è ineguale. Si domanda allora: è possibile che una distribuzione ineguale si accordi con una prospettiva egualitaria? La risposta, secondo Rawls, è affermativa.
Per comprendere meglio la sua posizione, facciamo un esempio. Immaginiamo che dobbiamo distribuire otto monete a quattro persone in modo che ognuna di esse si trovi nel migliore stato possibile, ovvero a possedere più monete possibile. Questo esempio somiglia a quello della torta dell’articolo precedente, e la risposta che potremmo intuitivamente dare è: occorre distribuire le monete egualmente tra le quattro persone e, quindi, darne due a testa. Tuttavia, se poniamo che una delle quattro persone sia un genio degli investimenti e abbia le capacità per far fruttare meglio la ricchezza rispetto agli altri, mentre almeno uno degli altri sia del tutto incapace sotto questo aspetto, potremmo fare una riflessione che giustifichi una distribuzione limitatamente diseguale. Potremmo, infatti, dare tre monete alla persona capace, due a testa alle altre due, e una a quella incapace; la persona capace farebbe fruttare la ricchezza ottenendo altre otto monete dalle tre che aveva. Queste otto monete verrebbero in seguito distribuite procurando due monete ulteriori a tutti gli altri. In questo modo alla fine si ottiene che la persona capace ha cinque monete, quella incapace tre e le altre due quattro: questa situazione migliora la posizione di ognuno rispetto allo stato in cui ognuno riceva in partenza due monete.
Forse questo esempio non è eccessivamente esauriente, ma penso che possa illustrare l’idea di Rawls: se determinate ineguaglianze di ricchezza e differenze in termini di autorità migliorassero la posizione di ciascuno, allora verrebbero accettate dai contraenti nella posizione originaria. Invece che “la posizione di ciascuno”, si potrebbe dire, per specificare meglio, “la posizione dei più svantaggiati”, ovvero di quelli che hanno le aspettative più basse (nell’esempio, la persona che ha meno capacità). Non sarebbe giusto porre degli handicap a chi può rendere di più, ma occorrerebbe, piuttosto, permettergli di rendere di più e avere di più. Tuttavia, la differenza di cui questa persona godrebbe (nell’esempio, più monete rispetto agli altri) è legittimata solo se chi è più svantaggiato si trova in una situazione migliore grazie a questa differenza, rispetto a una situazione in cui tale differenza non vi sia. Ecco perché un tale principio verrebbe accettato anche dalle persone con minor capacità.
Questo è quello che Rawls chiama “principio di differenza”, ovvero il principio secondo cui sarebbero consentite solo le disparità sociali ed economiche capaci di tornare a vantaggio dei membri della società meno favoriti. Il principio di differenza, assieme al principio che garantisce cariche e posizioni aperte a tutti, costituisce il secondo principio di giustizia che verrebbe adottato dai contraenti della posizione originaria. Questo secondo principio recita quanto segue: le ineguaglianze economiche e sociali sono legittimate quando sono per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, e sono collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità. In questo modo la distribuzione di redditi e opportunità non sarebbe determinata da fattori arbitrari da un punto di vista etico. Nessuno avrebbe un sentimento di ingiustizia, perché ognuno, razionalmente, in una situazione di posizione originaria rawlsiana, accetterebbe questa distribuzione diseguale che va, però, a vantaggio di ognuno. Un margine di diseguaglianza è, d’altra parte, necessario per dare degli incentivi ai più dotati: se non venissero dati loro incentivi, essi potrebbero decidere di lavorare meno, o addirittura di non sviluppare neanche le proprie attitudini, e in tal modo tutti risulterebbero svantaggiati.
Questi sono dunque i due principi di giustizia: 1) il principio delle eguali libertà fondamentali; 2) il principio di differenza. È importante aggiungere che il primo principio è gerarchicamente superiore al secondo, che gli è subordinato. Non è, perciò, consentita nessuna cessazione di una o più libertà fondamentali per l’ottenimento di un vantaggio nella distribuzione, o per altri motivi. Il venir meno delle libertà fondamentali porterebbe, infatti, nuovamente a una società ingiusta. Come abbiamo visto, chiunque si trovi in posizione originaria ha, come primo interesse, quello di assicurarsi le libertà fondamentali, prima di occuparsi della distribuzione delle ricchezze e delle cariche amministrative: nessuno accetterebbe, di conseguenza, di potersi ritrovare privato di alcune di queste libertà. Questi sono dunque i principi fondatori della società giusta rawlsiana.
Un’obiezione che un libertario muoverebbe sicuramente a Rawls è la seguente: le persone si meritano i compensi ottenuti con i loro sforzi e sono perciò una loro proprietà, ed è ingiusto che lo Stato possa distribuirne una parte a vantaggio degli svantaggiati. Anzitutto, risponde Rawls, anche l’impegno può essere considerato il prodotto di un ambiente favorevole: come altri fattori che contribuiscono alla nostra riuscita, l’impegno dipenderebbe da circostanze contingenti per le quali non possiamo attribuirci alcun merito. Una statistica dimostra, ad esempio, che i primogeniti, all’interno di una famiglia, ottengono mediamente più successi. Anche l’impegno sarebbe allora un fattore eticamente arbitrario, dal quale non deriva alcun merito morale. Inoltre i fautori della meritocrazia guardano in realtà più ai risultati che all’impegno, e infatti uno che si impegnasse molto ma ottenesse risultati inferiori a un altro che si impegnasse poco, non “meriterebbe” di essere pagato di più di quest’ultimo. Un’altra obiezione di Rawls alla meritocrazia è, inoltre, che le doti che una società mostra di apprezzare nelle diverse epoche sono anch’esse moralmente arbitrarie. Nella Toscana medievale i pittori di affreschi erano apprezzatissimi, mentre ora lo sono i programmatori di computer. Per essere socialmente stimata, un’attività deve corrispondere alle qualità apprezzate da quella data società: John Roberts, presidente della Corte suprema degli Stati uniti, ha uno stipendio annuo di 217.000 dollari; “Judge Jury”, la presentatrice di un reality televisivo che interpreta la parte di un giudice, guadagna 25 milioni di dollari all’anno. Si osserva, dunque, che l’entità del contributo di ognuno, su cui si basa la stima di “merito”, varia a seconda della società e del tempo. Nessuno può però sostenere che, quando le capacità di qualcuno sono meno richieste o si deteriorano, la sua dignità morale subisca un mutamento analogo. Riteniamo forse che “Judge Jury” meriti di guadagnare cento volte più del presidente Roberts? Non è forse un caso fortuito che sia capitato a “Judge Jury” di vivere in una società che elargisce somme favolose ai divi della tv?
Nessuno ritiene che chi vinca un gioco di fortuna meriti quanto ha vinto, se non nella misura in cui si è intrappolati nella mentalità che il successo arrida al merito. In un gioco di abilità, invece, si parla di merito, e questo perché i giochi di abilità premiano l’esercizio e la manifestazione di determinate capacità. La distribuzione del reddito e delle posizioni sociali, afferma Rawls, non si occupa di premiare la virtù o il merito morale, ma piuttosto mira a soddisfare le legittime aspettative che sorgono una volta stabilite le regole del gioco. Una volta che i principi della giustizia abbiano fissato i termini della cooperazione sociale, le persone hanno diritto ai benefici che si saranno guadagnati osservando le regole; ma se il sistema fiscale prevede che una quota del loro reddito debba servire ad aiutare i meno fortunati, non potranno lamentarsi di venire privati di qualcosa che si sono moralmente meritati.
Se si ritiene normalmente che la distribuzione dei vantaggi economici e sociali si basi sulla virtù, come nel caso del gioco di fortuna, questa falsa idea è causata dal considerare in qualche modo la giustizia distributiva come l’opposto della giustizia retributiva: il diritto penale punisce chi ha commesso atti malvagi, e ha rivelato perciò una cattiva qualità; la distribuzione dovrebbe allora premiare chi ha buone qualità. Ma la distribuzione dei vantaggi economici e sociali è totalmente differente, e non è, per così dire, un complemento del diritto penale, nel senso che l’uno punisce certe violazioni, mentre l’altra ricompensa il valore morale. La funzione delle quote distributive ineguali è quella di attrarre gli individui verso posizioni e associazioni in cui, dal punto di vista sociale, c’è maggior bisogno di loro, e solo in questo senso avranno “meritato” la loro posizione e la differenza nella distribuzione.
Concludiamo chiarendo che la teoria rawlsiana della giustizia non ambisce a regolare tutti i rapporti sociali, né tutte le sfere dell’esistenza umana. Essa riguarda esclusivamente quella che Rawls definisce la struttura di base (o struttura fondamentale) della società, ossia le principali istituzioni sociali che hanno un impatto determinante e non eludibile sulle opportunità e le risorse di cui godono le persone. Questa delimitazione importante dell’ambito di applicazione della teoria rawlsiana è collegata a un altro suo aspetto fondamentale, che nel contesto della filosofia politica va sotto il nome di dualismo: occorre distinguere tra etica delle relazioni tra individui e etica pubblica, e infatti la teoria della giustizia non regola le azioni dei singoli, ma si applica agli effetti del sistema delle istituzioni nel suo complesso.
Beniamino Peruzzi
Un ringraziamento al prof. Ian Frank Carter
Con amicizia letto da Arnaldo Mitola
Bibliografia
M. Sandel, Giustizia il nostro bene comune, Feltrinelli, Milano, 2014, cap. 6
V. Ottonelli, (a cura di), Leggere Rawls, Il Mulino, Bologna, 2010, Introduzione e cap. I e II, pp. 7-147
Immagine
R. Magritte, Golconda